Antropologia alimentare dalla carestia alla dieta preventiva


Antropologia alimentare dalla carestia alla dieta preventiva


La storia dell'alimentazione dimostra come, dal drammatico binomio «fame-morte» di molti secoli fa, si sia passati prima alla non meno triste realtà «carestia-malattia» e poi, negli ultimi decenni, al parallelismo «nutrizione-salute», preludio del concetto di «dieta-prevenzione» oggi dominante. 
Tutto questo sembra avvalorare ciò che sosteneva più 150 anni fa il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1804-1872): «L'uomo è ciò che mangia». 
L'alimentazione, dunque, ha sempre svolto un ruolo fondamentale per la salute individuale e collettiva. Una particolare microstoria gastronomica può rappresentare un prisma attraverso il quale osservare una più generale macrostoria alimentare, inerente l'assunzione quotidiana del cibo e le sue ripercussioni sulla salute. Ne risulterebbe uno spaccato di storia che, avendo come filo conduttore le abitudini alimentari di una popolazione, aiuterebbe a capire come siano cambiati gli stili di vita e i gusti delle persone negli ultimi duecento anni: un «viaggio» dalla fame dei secoli passati all'abbondanza dei giorni nostri, dalla malnutrizione alla dieta bilanciata, dalle malattie causate da carenza di cibo alle patologie da eccesso alimentare, dalla tradizione all'innovazione, dalla semplicità dei cibi preparati dalle abili mani delle donne di casa alla complessità degli alimenti preconfezionati, dalla presunta genuinità dei prodotti naturali alla supposta artificiosità e alla potenziale pericolosità dei cibi industriali. 
L'arte di «mangiar bene» per restare sani ha rappresentato in passato, ed è ancora oggi, un'aspirazione comune dei popoli. Guardando in particolare alla nostra storia nazionale degli ultimi due secoli, risulta evidente l'impegno messo in campo da «cuochi e medici», in entrambi i casi convinti - sia pure agendo in ambiti chiaramente distinti - della necessità di migliorare le abitudini alimentari e lo stato di salute degli italiani. 
A metà Ottocento i gravi aspetti sanitari legati alla insufficiente o inadeguata assunzione di cibo, diffusi in tutto il paese, imponevano, insieme all'impegno politico per avviarne la soluzione, un approccio più razionale al problema della sottoalimentazione: occorreva «studiare il ricambio organico della materie prime - grasse, zuccherine, albuminoidi - fornite all'uomo dai cibi» per identificare il fabbisogno alimentare minimo da fornire a tutta la popolazione, onde eliminare i comuni «stati nutrizionali largamente inferiori a quel minimo predisponenti a malattie devastanti, come la tubercolosi, [ ... ] e a malattie da carenza, come la pellagra», come già sosteneva nel 1871, nel suo Trattato popolare dell'alimentazione, Jakob Moleschott (1822-1893), professore di Fisiologia all'Università di Torino. 
In quegli stessi anni, un altro «popolare» fisiologo e antropologo, Paolo Mantegazza (1831-1910), invitava a migliorare l'Igiene in cucina - titolo di una sua pubblicazione del 1867 - e annotava come l'inadeguatezza qualitativa dell'alimentazione fosse fonte d'inefficienza e di malattia: «Il povero in città si tiene cara sopra tutte le vivande la sua minestra, la quale sotto un immenso volume rappresenta un poverissimo alimento; mentre il povero della campagna non vive quasi che di polenta e di pane giallo, rimpinzando il suo povero ventricolo d'un cibo indigesto e avaro con cui farà un sangue languido e malato». 
Nel 1881 Oscar Giacchi, igienista e dietista d'origine toscana che voleva essere Il medico in cucina - come intitolava un suo libro - per gli abitanti di Milano e del suo contado, forniva consigli pratici ed economici per migliorare l'alimentazione: «Se i braccianti che guadagnano oggi tanto poco in confronto del costo delle più comuni vettovaglie, e pur tuttavia vogliono fare all'amore e prendere moglie, invece di rincorrere alla snervata farina di granoturco, all'insipido riso, all'ingrato baccalà, alle fetide sardine, acquistassero tante paste e tanto pane con un tocchetto di grasso fresco o di strutto di maiale per aggiungervi un saporito condimento, la lotta alla miseria colla fame sarebbe meno atroce, e le ferite di quel mostro riuscirebbero meno avvelenate». 
L'obiettivo era quello di trasformare l'assunzione del cibo da fisiologica risposta a un bisogno - la fame - a calcolata offerta a un'esigenza - la sana nutrizione -, e la preparazione delle vivande da empirico allestimento culinario ad arte della gastronomia. 
In questa prospettiva, nel 1863 veniva stampato a Milano un Manuale di cucina lombardo-veneta, «indispensabile per ogni ceto di famiglie» della città e della campagna, come si precisava in antiporta. «Questo libro - scriveva l'editore - contiene una ricetta per tutti i mali fisici e morali [della cui] utilità non fa mestieri parlarne, poiché la cosa più importante della vita è il mangiare, [e se questo testo] v'insegna a mangiar più bene [ ... ] è il libro più sapiente della terra». Egli ricordava ancora ai lettori che «il primo male fisico è la fame ed egli v'insegna a soddisfarla» poiché «la medicina è debitrice alla gastronomia», e che ovunque «il cuoco è più considerato del medico, quando si vedono cuochi pagati dieci volte di più che un medico di campagna». 
A Firenze invece, nel 1891, veniva pubblicato un libro di Pellegrino Artusi (1820-1911): La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie. La sua ambizione era quella di coniugare l'igiene alimentare e la scienza in cucina) con il buon gusto gastronomico l'arte di mangiare bene), convincendo la gente a «non vergognarsi a mangiare il meglio che si può» per soddisfare nel miglior modo possibile la nutrizione che, con la propagazione della specie, «è una delle due funzioni principali della vita». 
Anche se i destinatari di quest'opera erano socialmente selezionati (classi agiate e ceti medioborghesi), egli riuscì in realtà a coinvolgere fasce più ampie della popolazione, fornendo di fatto un «codice alimentare nazionale» adatto a tutti e contribuendo storicamente alIa «unificazione culinaria» della penisola. 
Il suo scopo era di arrivare al superamento «positivo» (in sintonia con l'ideologia culturale dominante in quello scorcio di fine Ottocento, il Positivismo appunto) delle figure «del grasso borghese, in carne e in salute, e del proletario malnutrito, magro e predisposto ad ammalare», elaborate dal senso comune popolare ma non prive di reale riscontro nella vita quotidiana. Perché, come affermava nel 1890 a Bologna il fisiologo Pietro Alberoni (1849-1933), «l'abbondanza e la buona qualità degli alimenti sono uno dei fattori più importanti del benessere pubblico». 
E lo erano ancora a tal punto per tutto l'Ottocento e sino alla metà del Novecento che, dal secolare desiderio alimentare di mangiare abbondantemente a tavola, «deriva un corrispondente ideale estetico: essere grassi è bello, è segno di ricchezza e di benessere alimentare». 
Tra fine Ottocento e inizio Novecento, dunque, quantità e qualità del cibo sono diventati aspetti fondamentali per trasformare lentamente, nei borghi e nelle campagne, il malessere dell'individuo in benessere della collettività. Sul piano epidemiologico, tuttavia, dalle malattie della povertà (malaria, tubercolosi, pellagra e scorbuto) si è passati in pochi decenni alle malattie del benessere (diabete, obesità, dislipidemie, ipertensione, cardiopatie e neoplasie), dovute in gran parte alle nuove abitudini alimentari.

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