Quanto è bella la cucina povera



Finto brodo, finto ragù, trippa finta, uccelli scappati, pesci di montagna. È la gastronomia del non essere, quella capace di cavar sangue dalle rape. O addirittura di mettere in pentola uno scarpone al posto di un cappone, come fa il surreale Chaplin de La febbre dell'oro alle prese con una fame disperata. Trovando perfino un incredibile scampolo di felicità oltre il confine della commestibilità. Una grande metafora del bisogno estremo che si rovescia in iperbole gourmande. 
Del resto è proprio dalla penuria che nascono molti capolavori della cosiddetta cucina povera, da una necessità costretta dagli eventi a farsi virtù. Ricorrendo quasi sempre all'arte della sostituzione obbligata. Di cui erano maestre le massaie livornesi, capaci di far sobbollire perfino i sassi di mare per tirarne fuori un brodetto deliziosamente carico di umori minerali, da fare invidia ai crostacei più nobili. O le donne palermitane che hanno inventato un piatto come la pasta con le sarde fuggite, altrimenti detta ch'i sardi a mare, superbo eufemismo che trasfigura la scarsità in sobrietà, la miseria in nobiltà. In una sorta di edificante, quanto involontario, fermo pesca. 
Se la finzione diventa l'ingrediente principale allora la cucina si trasforma in un illusionistico teatro del gusto, dove un ingrediente fa la parte di un altro. E spesso non lo fa rimpiangere. Almeno in un'epoca come la nostra, in cui il problema principale non è certo quello di mangiare abbastanza calorie, ma piuttosto il contrario. Ecco perché andiamo in estasi per i pesci di montagna liguri, con le coste impanate e fritte che vestono i panni delle alici. O per la delicatissima finta trippa, che in realtà è una frittata a striscioline sottili, ripassata nel pomodoro e spolverata di parmigiano. 
Ancor meglio se si può fare addirittura a meno delle uova, come nella quaresimale frittata di scammaro partenopea, fatta di sola pasta rosolata in padella con olive e capperi. Un tempo magra consolazione per un'umanità minore costretta a un perpetuo mangiare di vigilia. Oggi magico antidoto mediterraneo contro il colesterolo e i radicali liberi che assediano la cittadella della nostra opulenza. 
Se i nostri antenati cercavano di colmare un atavico disavanzo proteico maritando, quando potevano, le minestre di verdure con gli avanzi della carne, noi le minestre le preferiamo vedove, come chiamavano nella Toscana contadina le zuppe di sole erbe e pane raffermo. O «maritate senza marito», vedove bianche di carni lontane, come dicono in quella terra di antica emigrazione che è l'Irpinia. 
Sublime espressione delle nostre culture del popolo, questi trompe-l'oeil alimentari, nati per ingannare la fame, hanno conquistato i piani alti della tavola. E adesso, sospinti dal vento del buono, giusto e pulito, celebrano un doppio trionfo, etico e gastronomico. 

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