Food Comunication

 

Marketing neuroalimentare e fake news



 

Un aspetto importante della comunicazione gastronomica è legato ai pericoli della cattiva informazione. Ciò che mangiamo ogni giorno è al centro di messaggi contraddittori che ci lasciano confusi e talvolta persino spaventati. Cercheremo di andare oltre i luoghi comuni per rispondere all'interrogativo: «Mi stanno raccontando la verità?». Porsi la domanda è un primo passo molto importante perché, come vedremo, non è poi così difficile trovare le risposte corrette. Paradossalmente, il problema nasce dalla grande disponibilità di alimenti. Siamo circondati dal cibo. Noi italiani non ne abbiamo mai avuto così tanto a disposizione e in tale varietà, dal fast food di massa ai prodotti gastronomici di nicchia. 

La capillarità della rete di distribuzione ci consente di fare la spesa nei tipici mercati rionali o in fornitissimi supermercati. 

Se prima della seconda guerra mondiale l'italiano spendeva per mangiare più della metà del proprio reddito, ora spende meno del 20 per cento. 

Dovremmo essere contenti di poter scegliere senza troppi problemi ciò che intendiamo consumare, avendo a disposizione un assortimento senza precedenti. Eppure non siamo mai stati così ansiosi rispetto al cibo. 

Siamo bombardati da messaggi allarmanti rispetto a questo o a quell'alimento: il burro fa male, ma anche le uova, per non parlare dello zucchero, ma pure la farina 00. 

E il salame? Per carità, contiene conservanti. Il pesto? Pare sia cancerogeno. 

Il glutammato? Signora mia, non ne parliamo! E quelle belle fragole che ho visto al supermercato? Probabilmente sono geneticamente modificate. 

Aiuto! Che cosa dobbiamo mangiare? Ma ecco che arrivano anche i messaggi rassicuranti: il tale alimento fa bene, mantiene la pelle giovane, è più nutriente. Anzi, se è biologico e a km o è ancora più benefico e amico dell'ambiente. 

Ma chi lo dice? Be', l'ho sentito in tivù, l'ho letto sul giornale e poi pure su un forum in internet, quindi è sicuramente vero. Ci possiamo fidare di quello che leggiamo e sentiamo sui media quando si parla di proprietà degli alimenti o di tematiche legate al settore agroalimentare? No, non ci possiamo fidare.

La disinformazione ha molte facce: si traveste da leggenda urbana che continua a propagarsi di bocca in bocca, di sito in sito, e trae credibilità proprio dall'ampia diffusione, di cui si autoalimenta. Ha la forma di una chimera mai esistita, come la fragola con i geni di un pesce, oppure di una presunta malattia inspiegabile, come il mal di testa che colpisce i clienti dei ristoranti cinesi. 

A volte la disinformazione nasce sui giornali, dal modo in cui i giornalisti riportano i fatti, specialmente quando riferiscono in modo scorretto i risultati di qualche studio scientifico. Ed ecco che gli spaghetti nel piatto degli italiani diventano, su qualche giornale, addirittura radioattivi. 

L'industria alimentare ci sguazza: basta dire che una certa merce è «naturale» per incrementare le vendite o alzare i prezzi. Troppo spesso l'informazione scientifica in questo campo è moltiplicata, strattonata e a volte persino piegata a fini poco nobili.  Solamente conoscendo questo alfabeto di base possiamo proteggerci, almeno parzialmente, dalla miriade di messaggi contrastanti, anche pubblicitari, con cui veniamo bombardati ogni giorno. 

I semi mutanti sono già sulle nostre tavole 

Ogni anno arrivano sul mercato tantissime nuove varietà vegetali, frutto di selezioni mirate assistite da tecniche biotecnologiche. Anche se si tratta a tutti gli effetti di manipolazioni del DNA, gli organismi che ne risultano non sono OGM perché, secondo la definizione dell'Unione europea, sotto tale sigla sono compresi soltanto gli organismi che derivano da modificazioni mirate effettuate attraverso la tecnica del DNA ricombinante. 

Tra le manipolazioni che non ricadono legalmente sotto la categoria degli OGM ci sono quelle ottenute con le radiazioni nucleari (raggi gamma, raggi X, raggi alfa, raggi beta etc), che le aziende multinazionali praticano nei loro laboratori e delle quali il consumatore non viene informato. Sembrano più tecniche alchemiche che attività agricole.

Il DNA di tutte le specie viventi è composto dalle stesse molecole e funziona più o meno nella stessa maniera. Tra il DNA umano e quello di uno scimpanzé, per esempio, c'è solo il 2 per cento di differenza. Ma anche specie molto diverse contengono geni simili o uguali: condividiamo il 60 per cento dei geni del moscerino della frutta, il 75 per cento del DNA del verme nematode, e un rispettabile 30 per cento di quello del comune lievito. 

Siamo forse per il 30 per cento lievito? In realtà, ha poco senso parlare di gene «del lievito». È scientificamente più corretto dire che esistono dei geni che, assemblati nei cromosomi di un organismo vivente, vanno a costituire di volta in volta il patrimonio genetico del pollo, del pomodoro o dell'uomo.



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