Semiotica alimentare e le 3p del cibo: paura, piacere, potere

 

Semiotica alimentare e le 3p del cibo: paura, piacere, potere


Senza mangiare si muore, mangiando si teme di morire. Un detto antico sulla complessa serie di paure che fa parte della nostra architettura mentale, per divenire una malattia dell'anima, che la scienza non riesce a controllare e tanto meno eliminare. 

La paura, assieme al piacere e al potere, sono tre dominanti antropologiche dell'alimentazione umana, che da sempre ogni cultura ha cercato di mantenere in equilibrio in una trilogia che ha radici antichissime, in parte preumane. 

Una trilogia che si regge sulla repulsione della paura, sulla attrazione del piacere e sul governo di entrambe che il "potere" (sociale, religioso, economico) esercita sul cibo attraverso regole di comportamento, esclusioni e permissioni, personali e sociali. 

Una trilogia complessa e al tempo stesso affascinante, per molti aspetti ancora misteriosa. La paura del cibo nei tempi antichi era stata esorcizzata con regole prima mitiche e poi religiose, che oggi abbiamo in parte perduto, e che la scienza sperimentale non pare capace di regolare e controllare, mentre i sempre più invadenti mezzi di comunicazione tendono ad amplificare più le insicurezze che le fiducie e le certezze. 

Leggere la paura del cibo e delle epidemie di terrore alimentare significa percorrere tutta la storia dell'umanità, dal timore per i cibi che le religioni avevano proibito, fino ai recenti spaventi per la malattia della mucca pazza, l'influenza aviaria e l'allarme per gli OGM. 

Il cibo non è più soltanto una necessità di sopravvivenza, ma si è caricato di altri significati, diventando un “oggetto" nuovo, raffinato, carico di aspetti estetici, edonistici, simbolici; in una parola, si è passati dal bisogno al desiderio, dalla necessità al piacere, dal nutrirsi al degustare. 

Quando la fame imperversava, non ci si preoccupava del contenuto di nitrati o dello stato di conservazione degli alimenti; illuminante al proposito è il De Re Coquinaria di Marco Gavio Apicio, in cui una parte non piccola del libro è dedicata al recupero del vino inacidito e dei prosciutti andati a male. Tutto si mangiava, non c'era spazio per le paure, la logica dominante sotto il giogo del bisogno era la massima disincantata e rassegnata: «Quod me non necat me certe fortiorem facit», da cui il volgare: «quel che non strozza ingrassa». Oggi, liberati dal fardello del bisogno ci “permettiamo" di avere paure.

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