LA SINDROME DI BURNOUT NELLA RISTORAZIONE
LA SINDROME DI BURNOUT NELLA
RISTORAZIONE
Sapete cosa hanno in comune Antony Bourdain, John Lermayer, Benoit Voiler, Bernard Loiseau, Josh Marks, Christian Giorgini, Raffaele Gargiulo.
Tutti sono stati addetti del settore ristorativo (alcuni sono stati grandi chef
e barman, altri erano giovanissimi camerieri alle prime armi) e tutti loro si
sono tolti la vita.
Ricordo la prima volta che ho
sentito parlare di un cuoco che si era suicidato. Era un ragazzo che
dall’Italia era andato a vivere e lavorare in Venezuela. Un mio amico che lo
conosceva bene mi disse che purtroppo succede a chi fa quel lavoro li – “A
stare tutte quelle ore chiuso in cucina diventi matto!”.
Io non capivo, non riuscivo a capire come potesse un lavoro del genere portarti
ad andar fuori di testa. Poi nel 1993 feci la mia prima stagione intera e le
cose divennero da subito un po’ più chiare.
La chiamano SINDROME DA BURNOUT, ovvero l’esito dato da un periodo
altamente stressante che interessa in particolare i professionisti che hanno
forti relazioni con il pubblico.
Il fenomeno attirò l’interesse di psicologi e sociologi degli anni ’70, in
particolare negli ambienti sanitari, ospedali, manicomi, penitenziari e in
generale tutto il mondo del servizio sociale. Queste categorie sono afflitte da
una duplice fonte di stress: il proprio inevitabile stress personale e quello
dei loro assistiti.
Per quanto in Italia il fenomeno del burnout venga studiato da decenni,
nessuno ha mai pensato di verificare se nel nostro settore, quello ristorativo,
ci fossero le condizioni per il manifestarsi di questa patologia.
Il problema esiste, però va
affrontato nel modo più corretto possibile, perché passare da ignorati a
martiri è un attimo e il rischio è quello di ottenere un’inutile pietismo di cui
possiamo fare meno.
Facciamo un passo indietro. Nel
2015 è uscito uno studio del Southern Medical University in Guangzhou,
erroneamente riportato da alcuni blog anche italiani, dove si voleva far
passare l’idea che quello del CAMERIERE fosse il lavoro più stressante del
mondo.
Balle! O come si dice oggi “fake news”.
Articoli buoni per fare click sui siti di settore insomma.
Lo studio apparso su Neurology di quell’anno ha
determinato come soprattutto tra le donne, quelle che lavorano in contesti
con basso potere decisionale e alte esigenze richieste, praticamente il settore
terziario con il contatto al pubblico (e quindi cameriera, ma anche commessa e
infermiera) ci sia un rischio maggiore del 30% di avere un ictus, dovuto allo
stress lavorativo e allo stile di vita ad esso associato, fumo e l’abuso di
alcool in primis.
Da qui a stabilire che il
mestiere del cameriere di per se, sia un mestiere stressante, ci sembra
esagerato.
Qualsiasi lavoro se mal gestito, mal organizzato, con datori di lavoro poco
onesti e approfittatori, può diventare stressante.
Viceversa ci sono lavori che per quanto vuoi provare a migliorarli, avranno
sempre un aspetto insormontabile.
Nel caso di operatori sociali,
infermieri, assistenti sanitari, queste persone saranno sempre a contatto con
la sofferenza e la richiesta reale e spesso drammatica di aiuto.
Quello che oggi sta succedendo
nel nostro settore, quello ristorativo, è che si è passati dal semplice far da
bere e da mangiare, a sentirsi investiti di un compito estremamente più
importante e oneroso.
“Il cliente non viene per
mangiare, viene per vivere un’esperienza”
Questa frase ricalca ormai gran
parte dei corsi di formazione per ristoratori e rispecchia certamente la
realtà. Moltissimi clienti cercano qualcosa al di là del semplice
soddisfacimento della necessità primaria di sfamarsi e dissetarsi.
Deve evadere dal lavoro, dalla routine, dalla moglie, dai figli, da se stesso.
Evade e cerca. Cerca compagnia, cerca stimoli, avventure, silenzio,
compiacenza, un sorriso facile, un “Come sei bella oggi!”, “Quanto è figo
Mario!”.
In tutto questo camerieri e barman in primis, si sentono chiamati a non essere
più semplicemente camerieri e barman, ma consulenti, amici, personal trainer,
badanti, baby sitter, psicologi. Di fatto non esiste un limite se non ve lo
ponete.
E forse è proprio qui che nasce
il problema.
Il problema sta nel non accettare di essere solo uno che porta i piatti e
shakera drink o prepara da mangiare. Vogliamo la parte migliore in questo
spettacolo, vogliamo essere protagonisti. Ecco che allora non ci basta più fare
solo il nostro, ecco che accettiamo con una certa facilità a dare di più, molto
di più.
Una corsa inarrestabile verso la ricerca, la novità, la soddisfazione totale di
ogni percettibile sensazione o desiderio.
Dall’altra anche i clienti sono
effettivamente diventati troppo pressanti e anche per loro inizia a esistere
uno smisurato senso di importanza verso quelle che sono le loro necessità e i
loro problemi “percepiti”.
- Non trovare nel menù una vera alternativa
vegana ai propri gusti e alla propria etica, ma solo le solite insalate e
verdure alla griglia è veramente un problema?
- Non trovare un’area bimbi, un ristoratore
attento che ci faccia trovare carta e pennarelli per intrattenere i nostri
pargoli o il seggiolino (perché magari quella sera si sono presentati più
bimbi del previsto e semplicemente non sono disponibili) è forse un
dramma?
- Trovare il ristorante pieno di sabato sera
e vedersi rispondere che non si prendono altri tavoli perché il locale è
pieno e la cucina è già fin troppo impegnata…è così la fine del mondo?
Avere problemi psichiatrici per
aver subito abusi da infanti, trovarsi in ospedale ricoverati per un male
difficilmente curabile, scontare pene decennali per un atto criminoso di cui si
è pentiti, ma per cui bisognerà scontare la pena. Questi sono problemi reali e
chi si confronta ogni giorno con questi problemi, inevitabilmente si troverà
per empatia, inizialmente a soffrirne per poi ritrovarsi spesso impotente, e
infine rifugiarsi in un’apatia messa in atto dal cervello per salvarci. Lì è
presumibile e degno di attenzione il burnout.
Cuciniamo, prepariamo drink,
portiamo questi al tavolo per sfamare e dissetare persone che hanno la fortuna
di non avere gran parte dei problemi sopracitati (e di certo non siamo noi
nelle nostre vesti di camerieri o barman a poter risolverli, nel nostro
contesto lavorativo).
Nonostante questo, la realtà dei
fatti è che i clienti sono pressanti, noi spesso troppo bisognosi di sentirci
indispensabili anche attraverso la risoluzione di problemi resi più importanti
di quanto non sembri e in tutto questo: cuneo fiscale, costo del lavoro e
ristoratori poco capaci arricchiscono la triste condizione in cui molti versano
con una ricompensa ben poco gratificante.
Ecco che allora il terreno per
il burnout dove non c’era, adesso c’è.
Esiste un modo per risolvere, per migliorare questa realtà?
Penso di si. Ma prima di parlare e scrivere soluzioni è il caso di parlarne.
Bisogna comprendere bene quale sia realmente il problema, perché se non si
capisce bene la domanda, non troveremo mai la risposta.
La prima domanda da farci quindi
è:
“IL NOSTRO È UN LAVORO STRESSANTE”
La risposta è NO.
Finché ci sarà qualcuno che
sostiene il contrario, continueremo probabilmente a lamentarci, fumandoci sopra
l’ennesima sigaretta, chiedendoci se è lei a prendere fuoco o se siamo noi che
stiamo andando in BURN OUT.
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