Storia della Cucina Italiana - IV°

Nicola De Bonnefons


Autore de “Le delizie della campagna”, un curioso volume di gastronomia rurale pubblicato a Parigi nel 1654, Nicola de Bonnefons, gentiluomo e “valet de chambre” del re, è il promotore di un’arte culinaria che esalta i sapori genuini dei prodotti naturali destinati alla tavola. Verdure e frutta, grazie a Bonnefons, diventano protagonisti nella cucina di corte. E dalla corte la moda dei cibi naturali dilaga anche nelle tavole dei nobili e nei pranzi raffinati. “Le delizie della campagna”, nonostante il titolo, non è un trattato di agraria, ma un libro di cucina, diviso in tre parti. La prima tratta della confezione del pane e della scelta delle bevande ed è dedicata alle Signore di Parigi, fatto rivoluzionario per un’epoca in cui i grandi cuochi sono i soli responsabili della buona cucina, soprattutto in Francia. I cibi degli aristocratici dovevano aver raggiunto un considerevole livello qualitativo, ma la cucina borghese opponeva resistenza alle nuove idee e non erano ancora comparsi libri pratici di ricette per le famiglie. Nella scelta dei vini Nicola de Bonnefons prende in considerazione i Borgogna già famosi e lo Chablis e non fa cenno allo Champagne, probabilmente scarso e riservato alla tavola del re e a pochi privilegiati commensali. Il capitolo decisamente rivoluzionario del libro è il secondo, dedicato ai Frati Cappuccini, esperti nella coltivazione degli orti, e si occupa di un alimento considerato fino allora indegno di comparire sulle tavole nobili: le radici. Rape, rafani, ravanelli erano cibi poveri, che avevano soddisfatto la fame dei contadini e del popolo specie nei momenti di carestia. Grazie a Bonnefons e alla sue “delizie della campagna” le radici assumono dignità regale. Le ricette per cucinarle sono varie: semplicemente bollite, ma anche impanate e fritte, saltate con cipolla o aglio, insaporite d’erbe aromatiche, in fricassea. Non si parla ancora delle patate che, circa un secolo dopo, troveranno con Parmentier il grande estimatore e il grande cuoco. Accanto alle radici, Nicola De Bonnefons prende in considerazione erbaggi di vario tipo e molti legumi che mette al posto d’onore sulla tavola, specie nei pranzi di Quaresima. La terza parte del libro, che tratta delle carni e dei pesci, è dedicata ai “Maitres”, responsabili dell’andamento della casa, degli acquisti, delle dispense, delle ghiacciaie e, insieme con lo chef, dei menu. La cucina francese, rammenta un ambasciatore italiano in una cronaca di un suo viaggio a Parigi, nel 1577 era eccessivamente ricca e pesante. La tavola era colma di carne e i Francesi, secondo l’ambasciatore, si rovinavano lo stomaco e l’intestino mangiando troppo sostanzioso. A metà del Seicento, però, le cose cambiano in meglio e la cucina va lentamente evolvendosi verso cibi più leggeri. Questa nuova cucina esalta i sapori semplici e abbandona l’uso smodato di spezie e aromi. Il principio gastronomico che condanna le mescolanze ed esalta la semplicità - oggi messo in luce dalla “nuova cucina” e dalla “cucina naturale”- è spesso la base di un rinnovamento del gusto che rispecchia esigenze storiche, mentre si avverte una certa decadenza quando le complicazioni e l’accumulo di ingredienti determinano confusione di sapori che alterano le proprietà naturali del cibo. Nel secolo XVII si delinea in Francia, anche grazie all’apporto della cucina delle corti italiane, una capacità di rinnovamento e una maggiore attenzione ai sapori naturali che prepara una più raffinata arte culinaria. I Francesi si vanteranno in seguito di essere superiori agli altri Paesi europei in tutte le questioni di gusto. Segno nuovo è l’affermarsi definitivo dei legumi, considerati non più cibo dei poveri, né semplice contorno di piatti più ricchi. Trionfa ovunque in Europa la moda dei cavoli, un erbaggio conosciuto fin dai secoli bui del Medioevo, ma che, insieme alle rape, alle ortiche, ai cardi, erano comparsi solo sulla tavola dei poveri e dei contadini. Si riconoscono ai cavoli oltre che qualità gastronomiche, proprietà quasi miracolose come quella di far aumentare il latte alle balie, di far arrestare la caduta dei capelli, di affinare l’odorato. I broccoli, importati dall’Italia - le semenze provengono da Genova, Verona o Milano - fanno la loro comparsa in certe zuppe che, pur avendo origine popolare o contadina, allettano palati più aristocratici. I piselli sono uno dei piatti favoriti soprattutto per i delicati palati delle dame dell’epoca. Madame De Sevignè scrive in una sua lettera a proposito di questa nuova moda che sta facendo furore: “Vi sono delle dame che, dopo aver cenato con il Re, e cenato bene, trovano preparati dei pisellini nella loro camera per mangiarne prima di andare a letto, rischiando una indigestione”. I fagioli, importati dall’America, avevano conosciuto già un certo successo in Italia con il consenso di palati esigenti come quello di Papa Clemente VII. I Cuochi dell’illustre prelato preparavano zuppe di fagioli, ritenendo giustamente che, con questo legume, le minestre risultavano molto più vellutate e saporose di quelle con le fave o i ceci. Un sacco di fagioli, destinato a tutto il popolo di Parigi, sembra sia stato portato da Caterina de’ Medici, nipote del papa, insieme ai favolosi gioielli della corona, quando andò sposa a uno dei figli del re di Francia. Anche i funghi, un alimento noto fin dall’Alto Medioevo, facilmente recuperabile nei climi umidi di certi Paesi del centro Europa, diventano da cibo povero, cibo raffinato. Luigi XIII, appassionato estimatore di questo vegetale, fa arrivare funghi, conservati sotto sale della specie “spugnole” dalla Provenza. Pare che il re amasse a volte cucinare i funghi lui stesso e si dilettasse perfino di farli seccare al sole. Funghi farciti, vol-au-vent ai funghi, salse e purè di funghi sono piatti che ormai accontentano palati esigenti e golosi e non cibi che acquietano la fame. In Francia i carciofi erano comparsi per la prima volta sulla tavola degli aristocratici introdotti da Maria de’ Medici, giunta a Parigi alla fine del Cinquecento come moglie di Enrico IV. I cuochi italiani del suo seguito, come già qualche decennio prima quelli di Caterina de’ Medici, avevano influenzato notevolmente la cucina di corte. E fra gli esperti cuochi dei nobili e dei borghesi lo stile della cucina italiana aveva già un certo prestigio. Ma l’autorevole fautore di una cucina che esalta gli erbaggi, i prodotti naturali e condanna l’abuso di stufati, di umidi e di spezie è Nicola De Bonnefons. Il Bonnefons, uomo raffinato con vasti interessi “bucolici”, presta servizio a corte solo tre o quattro mesi all’anno. Gli altri li trascorre nelle sue tenute in campagna. La scelta esistenziale lo porta ad apprezzare anche il piacere delle cose semplici e genuine. È alla sua penna che viene attribuita la paternità di un curioso libro, apparso anonimo nel 1651, dal titolo “Il giardiniere francese” che è tutto un programma. Nel volume si celebrano le gioie del giardinaggio e si forniscono consigli utili sulla cultura degli alberi da frutta. Alcuni capitoli del volume sono dedicati a un argomento che interessa più direttamente la tavola e la dispensa: la preparazione di conserve di frutta e di marmellate. Nicola De Bonnefons, tuttavia, è rimasto famoso, oltre che per il suo amore per la gastronomia rurale, per la ricetta dell’uovo alla coque in cui - si dice - raggiungeva la perfezione. Ciascuno ha un modo per cuocere le uova “à la coque”: c’è chi le mette sul fuoco in un tegamino con acqua fredda e le toglie dalla fiamma appena l’acqua comincia a bollire; chi, invece, immerge le uova in acqua al bollore e le toglie solo dopo aver contato fino a duecento. Bonnefons consiglia di mettere due pinte di acqua in un tegamino e di immergervi le uova quando inizia il bollore, scostando il tegamino sull’angolo del fornello. Quando l’acqua sarà tiepida al punto da poter immergerci le dita senza scottarsi, si potranno togliere le uova. Assertore della semplicità, il Bonnefons detesta le mescolanze. Nell’introduzione del suo libro “Le delizie della campagna” scrive: “una minestra di salute sia una buona minestra di borghesi piena di carne ben scelta e ridotta a poco brodo, senza battuti, funghi, spezie o altri ingredienti, ma sia semplice, poiché si chiama di salute. Quella di cavolo, sappia totalmente di cavoli, quella di porri odori di porri, quella di rape odori di rape e così le altre, lasciando gli intrugli per i passati di crostacei, i battuti, le panate e le altre mascherature che si devono assaggiare senza rimpinzarsene. Quel che dico per le minestre, vale per le altre cose e serve da legge per tutto quello che si mangia”. Nicola de Bonnefons lamenta anche che la maggior parte dei cuochi francesi friggesse nel lardo tutte le carni che servivano per minestre e stufati, dando così a tutti i piatti lo stesso retrogusto.

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