I GIOVANI E IL LAVORO NEI RISTORANTI...

I giovani e il lavoro nei ristoranti
In un locale, 36 cuochi diversi in 8 mesi


Il Rapporto Fipe 2017, quest'anno dedicato a Gualtiero Marchesi, ha fatto il punto sull'andamento del settore dei pubblici esercizi nel nostro Paese. È emerso un quadro improntato a un sostanziale ottimismo. Restano però dei nodi. Nei ristoranti ad esempio tanti aspiranti cuochi iniziano, ma smettono subito. 

Una questione complessa, resa tale anche dal fatto che - comunque - il fronte occupazionale presenta una crescita del 3,3% sull'anno precedente. Una conseguenza dei consumi alimentari fuoricasa che si sono ormai attestati sul 36% di quelli alimentari complessivi. I pubblici esercizi contano oltre un milione di unità di lavoro. Resta elevato però il turn over imprenditoriale: nel 2016 hanno avviato l'attività 15.714 imprese, mentre circa 26.500 l'hanno cessata, con un saldo negativo per oltre 10mila aziende. Nei primi nove mesi del 2017 ne sono nate 10.835, mentre 19.235 hanno chiuso i battenti: una picchiata che vale 8.400 pubblici esercizi in meno.

(I giovani e il lavoro nei ristoranti In un locale, 36 cuochi diversi in 8 mesi)

Uno sbalzo consistente che si ripercuote sul fronte occupazione. La domanda, dati alla mano, c’è, ma stenta a raccordarsi con l’offerta che, almeno sulla carta, dovrebbe risultare pressante: 8.400 imprese defunte innestano sul mercato decine di migliaia di persone in cerca di impiego. Qui però si va in corto circuito. Solo a volgere lo sguardo indietro di un anno, un’altra indagine Fipe ha infatti rivelato che nel 2016 le aziende del settore hanno avuto difficoltà a trovare 4mila tra cuochi, camerieri e baristi.

Scollamento dovuto, a sentire i titolari-gestori dei pubblici esercizi, a una diffusa mancanza di determinazione nell’affrontare un lavoro che richiede impegno anche la sera, nel corso dei week end o dei giorni di festa. Il tasso di disoccupazione nazionale resta così inchiodato all’11%, secondo i dati Istat riferiti al mese di marzo e pubblicati il 2 maggio scorso.

E poi si innesta il fattore mediatico, che affascina e crea falsi miti, spesso miraggi. L’universo Horeca, grazie all’impegno (e al sacrificio) di molti cuochi che hanno conquistato il successo e al tam-tam di numerosi e differenti programmi televisivi, sta attraversando un’età dell’oro inimmaginabile solo una manciata di anni fa. Una tendenza sempre al rialzo alimentata dai social in tempo reale. L’ospitalità in senso lato è un seducente fenomeno globale, alla portata di tutti. Benissimo! Ma bisogna mantenere il senso di realtà e stare con i piedi ben piantati per terra.

«Il passaggio da cuciniere a cuoco - annota Rocco Pozzulo, presidente Fic, Federazione italiana cuochi - è stata una svolta epocale, una sudata conquista. La giacca bianca non è più umiliante, ma un elemento di orgoglio, che però va saputo gestire. L’eccesso di protagonismo ha una ricaduta sociale dannosa. Tra gli allievi degli istituti alberghieri sta passando il messaggio che quella del cuoco è una professione che ti fa diventare famoso. Noi spieghiamo ai ragazzi che se si arriva in televisione vuol dire che si è bravi e che si è fatta una dura gavetta. Per conquistare il successo ci si deve rimboccare le maniche e sgobbare per anni. Le carriere lampo, devono capire i giovani, non esistono».

Lo stato dell’arte è che oggi in Italia è difficile trovare personale qualificato. Per mille motivi diversi. Per il costo spropositato della forza lavoro che favorisce occupazioni part-time, a tempo determinato, intermittente, a chiamata, ma rischia di penalizzare la motivazione delle nuove leve che galleggiano così in una pozza di precariato. Va anche detto che lontano dalle luci della ribalta il mestiere dell’accoglienza è tra i più faticosi e impegnativi e che nella maggior parte dei ragazzi la voglia di sacrificarsi non c’è.

«Da inizio settembre a oggi - racconta Sandro Caputo, titolare del ristorante Nerino 10 di Milano - nella mia cucina sono passati 36 (trentasei!) aspiranti professionisti. Uno dopo l’altro si sono dileguati. Non hanno retto. Vogliono fare i cuochi perché hanno sognato di fronte alla televisione o perché si sentono completi al termine di un corso di formazione lampo. La realtà è un'altra. Ci sono, per esempio, le padelle da lavare alla perfezione a fine giornata. E quelle nessun programma tv te le farà mai vedere. In sala la situazione è differente, le mansioni sono meno vincolati. Due o tre collaboratori validi sono in grado di tamponare gli errori o le assenze di altri». La testimonianza di Sandro Caputo, al di là di ogni dietrologia, anche sensata, mette a fuoco un elemento di fondo: sono otto mesi che cerca un addetto cucina e non riesce a trovarlo. Di fatto, domanda e offerta non ce la fanno a incontrarsi.

In linea con il pensiero amareggiato di Caputo anche Beniamino Bilali, chef executive e coordinatore delle pizzerie Pummà (Milano, Bologna, Milano Marittima, Ibiza). «La base tecnica è fondamentale - sottolinea - ma non è sufficiente. Molti ragazzi oggi frequentano i corsi di formazione con l’idea di conquistare un palcoscenico. Un ponte per la fama e l’indipendenza. Si dimenticano però che il vero snodo è rappresentato dalla gavetta, complementare alla formazione teorico-pratica in aula. Nella mia esperienza, su 10 aspiranti pizzaioli, solo 2 o 3 risultano idonei: il 20-30%. Sono quelli animanti da passione e determinazione sin dal primo giorno. Sono già consapevoli che l’impegno quotidiano ti mette in tasca un mestiere. Con il passare del tempo saranno un esempio per chi verrà dopo».

Renato Andrenelli, presidente dell’Associazione pizzaioli marchigiani, prospetta una chiave di lettura diversa analizzando la tematica “personale” da un’altra angolazione. «Nel nostro Paese - spiega - la voce contributi incide in modo significativo sul bilancio dell’impresa pubblico esercizio. E forse proprio per questo si tende a sottovalutare l’aspetto risorse umane, a non effettuare quell’investimento culturale che fa poi la differenza. Se un dipendente lavora tranquillo e motivato, tutto funziona a meraviglia, ma se è sottopagato o non valorizzato le cose si complicano. A livello emotivo molla tutto, diventa furbetto, rema contro. Un atteggiamento pericoloso che si può diffondere a macchia d’olio tra gli altri addetti. L’effetto domino va bloccato sul nascere. Il nostro settore rappresenta la cultura dell’accoglienza, ma sono i datori di lavoro che per primi devono fare quel salto culturale che li porti a investire tempo ed energie per formare la propria squadra sul campo. Manca inoltre la volontà di fare sistema per riqualificare, quando necessario, la forza lavoro».

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