Carne e ambiente, la corsa alla fake meat vegetale e gli hamburger in provetta. Dal gusto all’etica, ecco cosa può succedere.
Carne e ambiente, la corsa alla fake meat vegetale e gli hamburger in provetta. Dal gusto all’etica, ecco cosa può succedere.
I report Fao parlano chiaro: bisogna trovare alternative alla carne su larga scala, e in fretta. E mentre Burger King annuncia un prodotto 100% vegetale, i suoi competitor sono al lavoro. Gli scenari: dalla "carne finta" vegetale a quella (per ora costosa) sintetizzata in laboratorio. Ma sul guadagno per ambiente e salute il dibattito è aperto
Sfrigola in padella, ha un bel colorito bruno e un cuore rosa, con una goccia di sangue al taglio: peccato, però, che non sia carne. O meglio, non deriva da macellazione animale. L’hamburger del futuro (che esiste già) si ottiene in provetta o a partire da proteine vegetali. La filiera della carne è considerata una delle più inquinanti al mondo, e nei paesi in via di sviluppo la domanda cresce rapidamente. Per questo tutti, da McDonald a Nestlé, stanno cercando nuove strade per produrre la carne, o qualcosa che gli somigli. Burger King, grande catena di fast food, a inizio aprile ha annunciato l’arrivo dell’Impossible Whopper in 59 ristoranti di St.Louis. 100% vegetale, ma con il sapore e l’aspetto del manzo.
L’espressione “carne finta” è un’etichetta che racchiude due cose diverse, da tenere distinte: una cosa è la carne ottenuta in laboratorioda coltura cellulare, la cosiddetta “carne in vitro”, un’altra cosa invece è la “fake meat” vegetale, ottenuta a partire dai piselli, dalle fave o dalla soia. Nel primo caso, la carne in vitro (o cultured meat) si ottiene prelevando cellule muscolari da animali vivi, che vengono “nutrite” e replicate in laboratorio. Non è un prodotto geneticamente modificato, ma sintetizzato in laboratorio, senza macellazione del bestiame. Pioniere è stato Mark Post, che nel 2013 servì il primo hamburger “in provetta”, costato 250mila euro e due anni di lavoro. Sforzo finanziato, tra gli altri, Sergey Brin, co-fondatore di Google. Da allora, l’olandese Mosa Meat è la realtà più avanzata in questo campo. Ma la tecnica può essere impiegata con altri animali: la californiana Finless Foods, per esempio, fa lo stesso con il pesce. Di fatto, il prodotto non esiste ancora sul mercato.
Nel secondo caso, cioè la fake meat di origine vegetale, gli ingredienti principali sono le proteine dei piselli o un derivato della soia, l’heme, a cui vengono aggiunti cellulosa, maltodestrine, olii vegetali per dare la consistenza grassa e barbabietola per ottenere il colore del sangue. A differenza di un hamburger vegano tradizionale, la fake meat è studiata per somigliare il più possibile al manzo nel colore, nella consistenza e nel sapore. Si producono anche salsicce, bacon, straccetti di pollo. Le imprese più forti in questo settore sono la Memphis Meat, la Impossible Food – fornitore, tra gli altri, di Burger King – e la Beyond Meat.
Alla base, c’è un discorso di sostenibilità ambientale. La FAO, in un rapporto del 2013, ha certificato che il bestiame produce il 14,5% delle emissioni di gas serra. La maggior parte delle terre agricole è destinata all’allevamento e al pascolo, sottraendo ogni anno centinaia di ettari di foresta. L’ultimo rapporto sulla zootecnìa, pubblicato nel 2018, sottolinea che l’impronta ecologica degli allevamenti si può ridurre, migliorando l’alimentazione degli animali o convertendo gli escrementi in biogas. I paesi industrializzati negli ultimi quarant’anni hanno prodotto il doppio della carne, usando il 20% in meno di terra. «I prodotti agricoli però rappresentano una quota importante, ma limitata, dell’impatto ambientale» sostiene il professor Giuseppe Pulina, docente all’Università di Sassari e presidente dell’Associazione Carni Sostenibili.
Entro il 2050, avverte la FAO il pianeta ospiterà 9,6 miliardi di esseri umani, e la vera sfida è trovare le risorse per nutrire tutti. Oggi, per 600 milioni delle famiglie povere, il bestiame è una fonte di reddito essenziale. La domanda di carne, uova e latte, cresce a ritmi vertiginosi: il 70% in più nei prossimi trent’anni, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Allora bisognerà trovare delle alternative, e in fretta. Perfino il re della macellazione americana, Tyson Foods, ha deciso di investire nella fake meat, così come Bill Gates e Leonardo Di Caprio. Per i fast food è scattata la corsa all’oro, e anche Nestlé ha annunciato che lancerà in Europa il Garden Gourmet Burger, a base di proteine di soia e grano.
Intendiamoci: esistono già hamburgerie vegane, come Flower Burger, e molte catene hanno in menù un prodotto vegan-friendly. McDonald ha lanciato due anni fa il McVegan in Svezia, poi introdotto in altri Paesi europei, con ricette diverse: in Italia l’esperimento è durato pochi mesi e non è più in menù. Ma nessuno di questi prodotti – a base di quinoa, soia o verdure panate – è paragonabile alla fake meat, che sfrigola e sanguina al taglio. In Italia il primo – e per ora unico – ristorante ad avere questo tipo di hamburger è Welldone Burger, catena di ristoranti bolognese che distribuisce i prodotti di Beyond Meat. Il fondatore Andrea Magelli sostiene che non sia solo una scelta di marketing: «Il tema della filiera per noi è alla base. La carne costerà sempre di più e ci sarà sempre più bisogno di attenzione a come alleviamo gli animali. Non possiamo considerarla solo una moda, ma una necessità per il pianeta». Lo scopo non è sostituire la carne, ma proporre un’alternativa sostenibile. Vuoi per curiosità, vuoi per motivi etici, Magelli conferma che il Beyond Burger si vende benissimo, anche a chi non è vegetariano.
Dal punto di vista nutrizionale, dice, la differenza principale è il minor contenuto di colesterolo. Per il resto sarebbe simile, se non più sano, della carne tradizionale: «Questo è, purtroppo, è solo parzialmente vero», spiega la dottoressa Elisabetta Bernardi, nutrizionista e autrice di diversi libri sull’alimentazione. «Un Impossible Burger, per esempio, ha il 60% in più di grassi saturi e quasi sei volte il sodio di un hamburger di manzo, nonché meno proteine e meno ferro». Un solo Impossible Whopper di Burger King quindi, con i suoi 15 grammi di grassi saturi sui 17 totali, copre il 72% del fabbisogno giornaliero. In un unico panino. «Nessuna meraviglia che abbia un sapore così succoso: imitare sapore e consistenza richiede dei sacrifici da qualche altra parte», spiega. C’è poi un problema di etichettatura. Il professor Pulina è categorico: è un’imitazione fedele solo all’apparenza, ma rimane un «polpettone vegetale». Perciò si domanda: «Se non è carne – o latte, o bresaola – perché deve prenderne il nome?» Magelli racconta che all’interno di Welldone il dibattito si è poi risolto con la dicitura “non carne”: «Di certo non si vuole abusare della parola carne, ma un conto è il claim commerciale, un conto l’etichetta».
Per adesso si può discutere solo di fake meat vegetale, perché la carne in vitro non esiste ancora sul mercato: ma negli Stati Uniti Usda e Fda (il dipartimento per l’agricoltura e quello del cibo) hanno annunciato che seguiranno direttamente le varie fasi di realizzazione della carne sintetica, dando di fatto il via libera alla produzione. Il procedimento è estremamente costoso: un chilo di carne sintetica potrebbe essere venduto a 60-70 euro. I sostenitori della fake meat fanno leva però sui benefici in termini di impronta ecologica. Secondo l’università di Maastricht (che collabora con la Mosa Meat) con le cellule muscolari estratte da una sola mucca si possono produrre 175 milioni di panini da fast food. Oggi, servirebbero 440mila mucche. In più, dicono i ricercatori, è un prodotto estremamente controllato: niente antibiotici né contaminazioni chimiche e batteriche.
Ma se dovesse arrivare nei nostri supermercati, il consumatore standard metterà di buon grado nel carrello il macinato ottenuto in provetta? Uno studio condotto dal dottor Federico Antonioli e dalla dottoressa Maria Cecilia Mancinirivela il profilo del potenziale cliente italiano: meno di 25 anni, altamente scolarizzato, più sensibile al problema dell’impatto ambientale che all’aspetto salutistico della fake meat. “Siamo di fronte a una frontiera etica e psicologica – conclude il professor Pulina – La domanda che dobbiamo porci, come società, è questa: siamo pronti a mangiare prodotti sintetizzati in laboratorio? Un processo, tra l’altro, mai tentato su larga scala: sappiamo come può iniziare, ma non dove arriverà”.
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