2030: il food delivery ucciderà i ristoranti. E dalle case spariranno le cucine
2030: il food delivery ucciderà i ristoranti. E dalle case spariranno le cucine.
Che fine faranno i ristoranti? In un paese come il nostro – che per citare un celebre monologo di Valerio Mastandrea “ha fatto del cibo la sua luminosa, potente e unica bandiera” – questa domanda potrebbe sembrare insensata. Ma basta tornare indietro di qualche anno per rendersi conto di quanto la tecnologia abbia già cambiato il lavoro dei ristoratori e le abitudini di consumo dei clienti.
Quanto vale il mercato del food delivery?
Diamo qualche dato, partendo proprio dai consumatori. In Italia l’espressione “food delivery” ha cominciato a diffondersi a macchia d’olio a partire dal 2015, quando il mercato italiano – dominato fino a quel momento da Just Eat – ha cominciato a popolarsi di nuove startup come Glovo, Foodora, Deliveroo e UberEats. In soli due anni, cioè nel 2017, secondo l’Osservatorio eCommerce b2c del Politecnico di Milano, il mercato degli acquisti di piatti pronti ammontava già a 201 milioni di euro, in aumento del 66% rispetto al 2016.
Con gli acquisti è aumentato anche il numero dei clienti: nei primi mesi del 2018, scrive Coldiretti, oltre 4 milioni di italiani si sono fatti consegnare cibo a domicilio (spesa o piatti pronti) almeno una volta al mese: un’abitudine che coinvolge prevalentemente i consumatori nella fascia d’età che va dai 25 ai 34 anni. Insomma, il trend è costantemente in crescita, tant’è che entro il 2022 le piattaforme di food delivery potrebbero generare un giro d’affari da 2 miliardi e mezzo di euro.
Di questo passo, si legge in un rapporto della banca d’investimento Svizzera Ubs, entro il 2030 il food delivery “ucciderà la cucina”: secondo i ricercatori, grazie ai robot e ai droni per la consegna “il costo di un piatto ordinato online potrebbe essere lo stesso di un piatto preparato in casa o addirittura più basso, contando anche il tempo che impieghiamo per prepararlo”.
Tra 12 anni, quindi, cucinare potrebbe non essere più una necessità e questo potrebbe rivoluzionare non solo le nostre vite, ma anche l’architettura delle nostre abitazioni dove lo spazio per la cucina potrebbe ridursi fin quasi a scomparire. Realtà o fantascienza? La risposta, sul lungo periodo, è tutt’altro che scontata, persino in un paese come il nostro, che ha fatto della varietà enogastronomica il proprio fiore all’occhiello.
Troppi ordini: nascono le cucine virtuali
La mania per il food delivery ha cambiato, ovviamente, anche il lavoro dei ristoratori. Le cucine dedicano molto più tempo alla preparazione dei piatti destinati alla consegna, ma questo sforzo – secondo le stime di alcune piattaforme di food delivery (si tratta quindi di un dato “di parte”) – è stato ampiamente ricambiato con un aumento medio dei ricavi del 15%. La collaborazione tra piattaforme e ristoratori, tuttavia, non si limita soltanto alla preparazione e alla consegna dei piatti.
Il fronte più interessante di questo sodalizio è quello che riguarda l’impatto dei big data sulla ristorazione. Le piattaforme registrano ogni giorno migliaia di informazioni che, una volta elaborate, possono essere utilizzate per ottimizzare gli investimenti:
“Alcuni player di food delivery – spiega Samuele Fraternali dell’Osservatorio e-commerce B2C – rivendono i dati ai ristoratori dopo averli elaborati. Grazie a questi dati è possibile profilare gli utenti, sapere quali prodotti vanno di più, quali sono i servizi preferiti, quali zone e fasce orarie rendono di più ecc ecc. Il ristoratore non paga tanto il dato, quanto la sua rielaborazione”.
E’ sulla base delle informazioni ricavate dall’elaborazione dei dati che all’estero sono nate le cosiddette virtual o dark kitchen: cucine senza posti a sedere, né camerieri, pensate soltanto per le consegne a domicilio. La differenza tra l’una e l’altra è questa: le virtual kitchen sono cucine virtuali gestite da più ristoratori con l’obiettivo di soddisfare la richiesta di pietanze di una determinata zona. Se nel centro di Milano sono richiesti hambuger, pollo fritto e cibi indiani, il player apre un laboratorio e raggruppa due, tre ristoratori che siano in grado di soddisfare questa richiesta. Le dark kitchen, invece, sono gestite in esclusiva da un unico ristoratore che può decidere di aprire una succursale virtuale per due motivi: o perché il suo ristorante fisico non riesce più a evadere le richieste dei clienti “reali” e virtuali al tempo stesso; o perché vuole ampliare il suo business senza aprire una nuova sede, con tutti i costi che questo comporta.
Alle spese di gestione, in genere, contribuiscono sia il ristoratore che il player di turno in egual misura. In Italia virtual e dark kitchen non sono ancora molto diffuse: gli unici esperimenti sono quelli di Rose & Mary a Milano e il progetto Deliveroo Editions, che ha permesso a diversi ristoratori italiani di esportare all’estero i propri menu dedicati al delivery senza aprire un locale fisico.
Il potere dei dati
Finora i dati sono stati il fulcro della collaborazione fra piattaforme e ristoranti, ma in futuro sarà ancora così? Cosa accadrebbe se le multinazionali del food delivery decidessero di “scendere in campo”, fondare un brand, e usare i big data raccolti anche grazie al contributo dei ristoratori per ottimizzare il proprio business? Per i ristoratori “tradizionali” non sarebbe una buona notizia. Al momento questo scenario viene smentito da tutti i player che abbiamo interpellato: i ristoratori – ci hanno detto – sono uno dei nostri asset principali e i costi di gestione di un brand non sarebbero sostenibili. Qualcuno, però, lascia uno spiraglio aperto per il futuro:
“L’evoluzione del mercato del Food Delivery a livello internazionale è stata molto rapida – ci ha scritto Foodora – Negli ultimi 5 anni la consegna a casa di cibi pronti ha avuto una crescita costante, con significativi cambiamenti anche in termini di business model. Si è infatti passati da servizi di consegna a domicilio specifici di ciascun ristorante o negozio alle grandi piattaforme di ordinazione online, alle aziende come Foodora che gestiscono sia ordinazione sia logistica. Per il futuro è facile prevedere una progressiva ricerca nel fornire un’esperienza ancora più integrata assumendo il controllo dell’intera filiera. Possibili ‘hub del food delivery’, che vedranno il coinvolgimento dei nostri ristoranti partner, sono destinati a contribuire allo sviluppo commerciale delle aree urbane residenziali dove l’offerta ristorativa è scarsa, o comunque di quelle ad alta densità abitativa, rendendole più vive e spostando il paradigma della domanda di ristorazione dal ‘mi muovo dal mio quartiere per andare a mangiare fuori, nelle zone ad alta concentrazione di locali’ al ‘i miei piatti preferiti vengono preparati vicino casa e consegnati nel giro di pochi minuti’“.
Un ulteriore conferma dell’importanza dei big data per il mondo della ristorazione è arrivata recentemente da Milano, dove alcuni imprenditori, già proprietari di una catena di ristoranti, hanno sviluppato “Strooka”, un software che consente ai ristoratori di tenersi i dati in casa per poter sviluppare strategie di marketing digitale in autonomia:
“Io – spiega Matteo Pittarello, fondatore di Strooka – intravedo il rischio, già capitato in altri settori, vedi quello turistico con Booking, o quello dei social media con Facebook e Youtube, dove all’improvviso viene unilateralmente cambiato l’algoritmo o le condizioni contrattuali: i ristoratori non preparati diventano immediatamente l’anello debole della catena, non godono dei benefici, ma ne pagano i costi. I ristoranti ora si trovano davanti a nuove sfide: imparare a collaborare in maniera equilibrata con tutti gli intermediari, gestire la relazione con loro e con i clienti, raccogliere e usare in maniera intelligente la mole di dati che ora si riesce a raccogliere. Se i ristoratori non si prendono questa responsabilità il rischio è quello che i clienti sceglieranno il proprio delivery preferito e non più il proprio ristorante preferito: il ristorante diventerà un prodotto indifferenziato su un eCommerce, dove via via l’unica differenza rischierà di essere il prezzo tra un ristorante e l’altro. Il software che abbiamo sviluppato ci permette da un lato di avere il pieno controllo sul fatturato, sulle preferenze dei clienti, sui piatti più venduti e quelli invece da migliorare, dall’altro di collaborare con piena soddisfazione con i migliori partner di delivery senza rischiare di lasciare a loro tutto il mercato, anzi, sviluppandolo insieme, in modo più equilibrato e armonico”.
In un passaggio del documento, i ricercatori di Ubs scrivono che “le piattaforme online hanno già rivoluzionato diversi settori, dalla vendita al dettaglio all’industria dei taxi (ma anche quella della musica, dei video, dei trasporti, ndr) e potrebbero fare lo stesso col food. In futuro le persone potrebbero andare meno al ristorante e questo significa che molti ristoranti potrebbero chiudere, altri diventare ancora più forti”. La differenza fra gli uni e gli altri, soprattutto in Italia, dipenderà dalla capacità dei ristoratori di coniugare tecnologia e tradizione.
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