Antropologia alimentare cibo come status sociale



Antropologia alimentare cibo come status sociale


Le considerazioni circa l'abbondanza e la scarsità, che secondo molti studiosi del fenomeno alimentare sarebbero determinanti nell'articolazione delle gerarchie dei cibi e delle scelte culinarie, acquistano senso solo a condizione di interagire con fattori sociali e simbolici, con i valori religiosi, insomma con i diversi aspetti della cultura di un popolo. 
A riprova del fatto che la funzione sociale e simbolica del cibo non è meno importante della sua funzione nutritiva. Tra i pescatori dell'oceano Indiano e del golfo di Guinea i crostacei, divenuti miraggio gastronomico per la maggior parte delle culture occidentali, sono considerati inutili e ingombranti e vengono addirittura ributtati in mare. In molti casi essi non hanno nomi distinti - come tutto ciò che non ha interesse sociale - e formano una sola categoria indifferenziata. 
Gli autori di uno studio condotto a metà Ottocento, Sull'alimentazione del popolo minuto in Napoli, riferiscono che i crostacei, pescati in abbondanza dai napoletani lungo le scogliere, andavano tutti sotto lo stesso nome di «ranci d'arena» e, lessati e conditi con peperoni, costituivano il pasto dei più indigenti. 
Anche nella Sardegna tradizionale i mangiatori di pesce erano considerati persone di infimo ceto a differenza dei mangiatori di carne ovina e bovina. 
Molto spesso è proprio la scarsità, la difficoltà di accesso a un cibo che ne fonda il valore di prodotto raro e pregiato. In tutte le società esistono dei cibi che funzionano da “indicatori di status”. È il caso delle spezie nella cucina europea, che costituiscono un ingrediente fisso nei menù aristocratici fino alla fine del XVII secolo quando, con la caduta dei monopoli che ne mantenevano alto il prezzo, esse vengono in parte abbandonate dalla cucina signorile, poiché ormai accessibili ad una cerchia troppo vasta di acquirenti. 
Anche la carne che per secoli ha rappresentato, nella nostra società, l'ideale alimentare, il cibo utopico dell'abbuffata festiva, del grasso Carnevale sognato tutto l'anno da un popolo di contadini mangiafoglie, mangiafagioli, mangiatori di polenta e aringhe, ha smesso, soprattutto dagli anni Settanta con la diffusione del benessere, di rappresentare un prodotto di prestigio. 
Paradossalmente oggi le fasce di mercato più ricche e sofisticate guardano con rinnovato interesse a quei prodotti integrali, ai legumi, che a lungo sono stati simbolo di povertà e che oggi una sapiente strategia di marketing mantiene in un'aura di purezza ecologica perché essi conservino il loro valore di status. 
Accanto alla qualità, al cibo raro e sopraffino, anche la quantità funziona spesso da indicatore di status, da operatore di differenze sociali. In molte società tradizionali il possesso di grandi quantità di cibo, o la capacità di controllarne la distribuzione, sono tra le prerogative caratteristiche del potere. 
Nell'area polinesiana e melanesiana si ritiene che l'abbondanza di cibo dipenda dal mana (una forza magica, fisica e politica insieme) del capo, dal suo controllo soprannaturale sulla produzione delle risorse alimentari. 
Anche in Africa e nell'Europa medievale si riteneva che il potere politico avesse la prerogativa di procurare piogge abbondanti scongiurando così il pericolo della sterilità e favorendo l'abbondanza. In queste culture il re era prima di tutto un signore delle piogge e degli elementi. Il possesso di grandi quantità di cibo è alla base della generosità dei capi, o degli uomini di prestigio, che suscita sempre !'invidia e l'ammirazione. 
Nelle isole Trobriand, a Nord-Est della Nuova Guinea, si compie sugli orti una magia speciale per togliere l'appetito agli abitanti in modo che i prodotti raccolti non vengano mangiati, ma restino a far bella mostra nei depositi dei «ricchi», fino a marcire. Si ritiene infatti che più cibo marcisce nei depositi più il proprietario verrà considerato ricco e importante. 
La possibilità di gettar via il cibo è considerata un po' dovunque un segno di abbondanza e di generosità. Nell'Italia contadina, di una festa ben riuscita si diceva «c'era tanto da mangiare che si è dovuto gettare il cibo sotto il tavolo», proprio come si usava nella Roma antica, dove gettare il cibo sotto la tavola era un segno beneagurante. Da questo tipo di credenze nasceva la convinzione, ancora molto diffusa, secondo cui porta male raccogliere il cibo caduto sotto la tavola, proprio perché ciò sancirebbe una condizione di indigenza e di dipendenza dalla generosità altrui. 
Chi possiede grandi quantità di cibo, chi può permettersi di sprecarlo offrendo banchetti e donandolo ai meno abbienti non fa che confermare la propria superiorità sociale. È questa la logica dell'elargizione dei sovrani e degli aristocratici nell'ancien régime, quella che si rifletteva in consuetudini festivo-alimentari fondate sulla dispersione ostentatoria di risorse alimentari, come le Cuccagne. Queste grandi esposizioni di cibi, che incarnavano l'utopia del Paese della Cuccagna, erano macchine scenografiche di legno o cartapesta, caricate di ogni ben di Dio e poi abbandonate al saccheggio del popolo minuto, per divertire gli aristocratici che dall'alto delle loro dimore si godevano lo spettacolo del furore della folla che si contendeva ogni briciola a costo della vita. Per certi versi lo stesso presepe napoletano, con la sua fitta e congestionata giustapposizione di cibi può essere considerato alla stregua di una Cuccagna, incarnazione della festa come utopia alimentare. 
In molti paesi, europei e non, il sogno dell'abbondanza si incarna in una concezione del corpo grasso come ideale di bellezza e insieme di prestigio. Questa estetica, riflesso di una cultura in cui la fame costituisce una delle grandi paure collettive, si riflette nelle arti figurative e nei modelli di bellezza che hanno nell'opulenza femminile di un Rubens e di un Tiziano una rappresentazione esemplare. 
Per lo stesso motivo, nel mondo polinesiano, le donne aristocratiche destinate ai capi e agli uomini di altissimo lignaggio subivano un trattamento di bellezza consistente in un ingrassamento intensivo a base di pantagruelici pasti di banane e veniva loro impedito di muoversi perché non disperdessero calorie preziose. 
Nella stessa logica si colloca la pesatura rituale cui veniva sottoposto tutti gli anni l'Aga Khan, capo religioso dei musulmani ismailiti che donavano al loro leader il corrispettivo del suo peso in oro e diamanti come contrassegno del suo peso sociale. Anche in questa usanza il peso corporeo appare come un indicatore del peso sociale: come dire che un «uomo grande» è per ciò stesso un «grande uomo». 
Questo valore sociale dell'abbondanza e del peso non caratterizza solo le culture primitive, quelle tradizionali. Anche nella nostra cultura l'attribuzione o il raggiungimento di status elevati sono stati spesso legati a delle simboliche ponderali, o meglio a delle ponderazioni simboliche. Dove il peso e l'abbondanza giocavano un ruolo decisivo nel definire il potere e il prestigio. In alcune aree contadine del nostro Mezzogiorno, prima di vestire il morto con l'abito da festa per l'ultimo viaggio, si usava mettergli un cuscino sull'addome 
perché apparisse, almeno per una volta, grasso e pasciuto, come un signore. Ancor oggi del resto espressioni come «uomo di peso», o «uomo di panza», stanno a significare un'importanza sociale espressa in termini corporei. L'opulenza era segno di ricchezza, di potere ma anche di bellezza. Le Veneri debordanti di Tiziano e di Rubens, burrose e tremolanti come budini, erano considerate la massima espressione del fascino femminile. La grassezza è mezza bellezza. Solo i poveri erano magri, quindi anche brutti. Di un povero cristo secco e male in arnese si diceva «brutto come una quaresima» perché la Quaresima, periodo rituale caratterizzato dal digiuno e dalla privazione, era raffigurata come un'orribile vecchia rinsecchita. 
Oggi nell'opulento Occidente, l'abbondanza è stata messa al bando in tutte le sue forme, reali e metaforiche, e quella magrezza che in passato era segno di bisogno, di povertà, di malattia, di cattivo augurio è diventata sinonimo di benessere, di bellezza, di efficienza. 
La gerarchia dei simboli alimentari si è invertita, in parte proprio a causa della sovrabbondante disponibilità di cibo a basso costo. Di conseguenza le grandi quantità, l'eccesso, restano l'aspirazione e la caratteristica di chi è escluso dai vertici suntuari e dai consumi di eccellenza che lo connotano. I must del desiderio cambiano continuamente per mantenere divaricata la forbice sociale e culturale fra chi può e chi non può permettersi ciò che veramente fa la differenza. Per cui i poveri rincorrono costantemente i ricchi per diventare come loro e appena credono di avercela fatta, i loro irraggiungibili modelli sono già da un'altra parte. 
Questi si alimentano come uccellini minimalisti, becchettano farro e legumi, gustano sushi in quantità infinitesimali, coltivando una sorta di ascetismo neopitagorico. Mentre i meno fortunati si abbuffano di junk food ad alto contenuto calorico. I primi sono leggeri come silfidi, in forma a qualunque età. I secondi sono sovrappeso sin da bambini.

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