Felicità alimentare lode all'equilibrio




Il termine felcità è, diciamocelo pure, ancora un po' malfamato: un uomo dedito al lavoro, alla famiglia è, salvo prova contraria, un galantuomo; un uomo dedito ai piaceri, chissà ... Ci comportiamo, insomma, come se lavoro e famiglia fossero cose naturali, buone, mentre il piacere sembra piuttosto un prodotto artificiale, quasi un lusso per pochi, tendenzialmente sregolati e libertini. La felicità, però è naturale quanto (e forse più) del lavoro (che può essere del resto anch'esso fonte di piacere) o del dovere e del sacrificio, questi sì prevalentemente culturali. 
Quella del piacere era - e rimane - una questione spinosa: genera pruriti moralistici, rimproveri di «compagni», moniti salutistici e accuse di superficialità. 
L'errore d'interpretazione sta nel considerare il termine quale sinonimo di «eccesso». Da qui, nascono i pregiudizi, in buona o cattiva fede. Innanzitutto essere dediti al piacere è, teoricamente, impossibile, in quanto l'eccesso non è compatibile con la routine, con le abitudini. 
Questo è vero in campo biologico (i nostri sensi, ad esempio, si adattano alle puzze e ai profumi senza riuscire più a sentirli) ma anche in termini psicologici: non esiste sensazione piacevole, per quanto paradisiaca, che il tempo non renda, se non sgradevole, ovvia e perfino banale. 
Se l'abitudine smussa il piacere, non è possibile farne una regola di vita: ne deriva che, per vivere piacevolmente, occorre ampliare le proprie fonti di felicità. Questo significa mantenersi disponibili ad apprendere a cambiare, quando è il caso, scelte e stili di vita. 
La monocoltura alimentare annulla i piaceri del palato, perché - per quanto buoni - li rende abituali. Difendere le varietà e le differenze significa, infatti, rinnovare quotidianamente un paradosso impossibile: consentire a un bene effimero, voluttuario, di durare. 
Ricercare la felicità alimentare è dannoso per la salute? A guardarsi intorno, e soprattutto a riflettere su modelli astratti e comportamenti, la nostra condizione non è dissimile da quella descritta dal Platina, che dal suo celebre De honesta voluptate et valetudine, stampato nel 1474, ottenne buona fama e qualche seguace. Il suo trattato sull'arte della cucina e del convivio era, al tempo stesso, conservatore e rivoluzionario. Riproponeva la nozione medica di «regime», di una regola di vita che nasca dalla conoscenza profonda del corpo, alla ricerca di un equilibrio fra istinto e controllo, fra desiderio e saggezza, fra - appunto - piacere e salute. Questo ideale di equilibrio era stato alla base della trattatistica filosofica, medica e dietetica dell'Antichità greca e romana.
A dispetto della sua semplicità, il programma del Platina rappresenta una vera rivoluzione rispetto alla realtà culturale dei secoli precedenti, dove le nozioni classiche di regime, misura, dieta (nel significato letterale di regola quotidiana, da seguire individualmente per ottimizzare il proprio stato di salute in rapporto alle esigenze dei piaceri della vita) erano state scavalcate da ideologie e atteggiamenti fondati sulla nozione contraria di «eccesso». 
Eccesso nell'abbondanza, ma anche nella privazione. In epoca medievale da un lato il cibo era segno di opulenza e di potere. Il potente poteva mostrare la sua forza e la sua attitudine al comando anche attraverso la capacità di ingerire molto cibo e di bere molto. L'eccesso opposto, quello della privazione, era inteso come segno di perfezione e santità: le pratiche ascetiche degli eremiti che mortificavano il proprio corpo con la fame, convinti che il piacere fisico allontanasse dallo spirito e conducesse al peccato.
Dall'emarginazione del piacere dall'universo dei valori positivi - etici e culturali - e dalla sua sostituzione con l'eccesso, deriva la frattura del binomio piacere-salute. Le ragioni della salute acquistano così una preminenza inedita e la scienza dietetica assurge a principale protagonista della letteratura intorno al cibo: essa teorizza come nulla si possa mangiare che non sia giustificato da necessità di salute, e che solo attraverso questa attenzione si possa giustificare il valore del cibo. Ma «la salute», diceva Madame de Sévigné, «è il piacere degli altri piaceri. Se si eliminano gli altri piaceri si vivrà forse più a lungo, ma si elimina con essi anche la salute». 
Sono passati più di 5 secoli, e l'odierna schizofrenia non ha fatto che riplasmare, peggiorandola, la filosofia medievale dell'eccesso: ci si mortifica a tavola, negandosi vino e ghiottonerie, con il miraggio di apparire sempre più immuni e perfetti. Questa è la ricetta del cibo-farmaco, non certo in simbiosi con le differenze degli umori degli uomini, dei paesi e delle stagioni.

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