Semiotica alimentare
Semiotica alimentare e grammatica del gusto
Mangiare e parlare sono attività strettamente connesse per ragioni tanto biologiche quanto culturali. Territorio di frontiera tra il dentro e il fuori, la bocca è l'organo del gusto ma anche della parola. Per parlare, non esiste oltretutto luogo migliore della tavola: mangiando si disquisisce anzitutto sul cibo, su tutto ciò che vi è connesso a vario titolo e sugli argomenti più svariati.
Nonostante la sua natura intima e soggettiva, il gusto è forse il più linguistico dei sensi, quello che maggiormente e più naturalmente coinvolge e sollecita la parola, la conversazione, lo scambio di idee.
La lingua ha il potere di far dialogare sapori e saperi, di legare il cibo e le parole, e l'etimologia del termine latino per 'bocca' (os), lo dice chiaramente: «la bocca è così chiamata - osservava Isidoro di Siviglia perché attraverso di essa, come attraverso una porta (ostium), entrano i cibi ed escono le parole».
Gli organi della bocca responsabili di quell'attività specifica dell'animale umano, che Aristotele chiamava “dialektos”, sono faringe, naso, palato, lingua, denti, labbra. Questa struttura morfologica, esito di quel processo evolutivo che ha fatto di noi umani i soli animali parlanti, è la stessa che utilizziamo per masticare, triturare, rimestare, succhiare, gustare, assaporare e ingoiare il cibo.
Dopotutto le parole nutrono la nostra mente e alimentano i nostri rapporti sociali, come il cibo ingerito nutre il nostro corpo, insaporisce e consolida i nostri legami interpersonali. L'affinità tra mangiare e parlare è stata evidenziata da diversi punti di vista.
Anzitutto, in entrambi i casi si tratta di sistemi di significazione, di linguaggi strutturalmente autonomi, governati da regole e molto ricchi.
Il cibo, scrive Barthes, è «un sistema di comunicazioni, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni, di comportamenti». «Acquistando un alimento, consumandolo o facendolo consumare, quest'alimento riassume e trasmette una situazione, costituisce un'informazione, è significativo ».
Il cibo ha pertanto un'innegabile dimensione semantica: il sapore di un piatto è l'esito di una serie di sapori che si amalgamano per restituire un nuovo significato fatto anche di consistenza e di aromi, capaci di richiamare, in modo particolare a un interprete raffinato, i sapori delle materie d'origine.
Già Lévi-Strauss aveva considerato l'alimentazione e la cucina alla stregua di un linguaggio, analizzandone gli elementi costitutivi, 'gustami', organizzati proprio come i fonemi di una lingua in rapporti di opposizione e di correlazione che regolerebbero le concezioni sul cibo nelle diverse culture.
Come le diverse lingue sono l'espressione sociale della facoltà del linguaggio, e pertanto variabili nello spazio e nel tempo, in modo analogo l'attività vitale del mangiare si esprime in modi diversi presso le diverse società, osservando delle convenzioni simili a quelle che regolano e danno stabilità alle lingue verbali.
Questo ha fatto pensare a una sorta di struttura interna del modo di mangiare, dove ogni elemento contribuisce al significato degli altri. La 'grammatica del cibo, come la chiama Montanari, ha una sua struttura il cui lessico si costruisce a partire dalla combinazione di quelle unità minime significative (morfemi) che sono le materie prime, variabile pertanto in rapporto al contesto ambientale, economico, sociale. La morfologia riguarda le modalità di elaborazione dei prodotti attraverso la cottura e la cucina che permettono di trasformare la materia prima in piatti (parole), con diversi risultati e funzioni (per esempio, con le farine si può fare il pane, la pizza, la polenta, i biscotti, la pasta); la sintassi del cibo, da cui dipende il significato del lessico e delle sue varianti morfologiche, è data come in una frase, e ancora meglio in un discorso, dalla successione delle portate di un pasto, dal loro accostamento, dalla loro relazione reciproca, e il 'piatto forte' assume una funzione centrale nel pasto-frase, nelle sue relazioni con altri componenti.
E se i contorni, gli antipasti, i sorbetti e i dessert rappresentano i 'complementi', mentre le salse e gli intingoli, come i morfemi liberi della lingua (preposizioni, congiunzioni) sono essenziali per legare gli elementi del pasto, i condimenti, la cui scelta è variabile per ragioni economiche e rituali, svolgono la funzione di avverbi e di aggettivi, contestualizzando le pietanze nello spazio e nel tempo.
E come ciliegina sulla torta non può mancare la retorica, quel compimento necessario per effetto del quale il cibo si esprime nella sua piena eloquenza rappresentato dal modo in cui il cibo-discorso viene preparato, servito e consumato (per esempio, velocemente o lentamente, o in maniera disciplinata come detta la regola seguita dai monaci), e comunque espressione di uno stile di vita.
Come il linguaggio verbale è strutturalmente sequenziale, temporale, per il disporsi dei suoi elementi costitutivi (fonemi, morfemi, parole, ecc.) su un continuum lineare, allo stesso modo la sensazione gustativa è temporizzata.
La sua successione, secondo Brillat-Savarin, è analizzabile in termini di:
- sensazione immediata, quella del primo impatto del cibo sugli organi del gusto collocati nella parte anteriore della bocca;
- sensazione completa, che coniuga a quella precedente le impressioni prodotte dal passaggio del cibo nel retrobocca, dove si percepisce la complessità di aromi e sapori;
- sensazione riflessa, quel giudizio espresso interiormente sulla base delle impressioni ricevute.
Nella nostra cultura poi, la parentela tra cibo e parola è attestata persino dal linguaggio e dalle sue metafore gustose: così abbiamo 'sete' di sapere, 'fame' di conoscenza o di informazioni, 'digeriamo' a fatica alcuni concetti, 'divoriamo' un libro, ci 'beviamo' una storia che ci raccontano, facciamo battute 'acide', sussurriamo parole 'dolci', raccontiamo storie 'piccanti', 'assimiliamo' certe idee, 'mastichiamo' un po' di tedesco, e ancora, ci 'mangiamo le parole' o ci 'beviamo il cervello'.
Insomma, espressioni che a partire dalla similitudine tra il cibo del corpo e il cibo della mente, rimarcano il nesso tra mangiare e parlare (pensare), rispecchiando quanto nelle parole che escono dalla bocca e nei cibi sapientemente ingeriti si rifletta la cultura umana.
Semiotica alimentare e significati del cibo
Il cibo è un linguaggio. Serve per comunicare con gli altri, per esprimere se stessi, per interpretare il mondo, per consolidare tradizioni culturali, per rappresentare gerarchie sociali, per classificare specie naturali, ecc.
Ma che cosa significa - esattamente, tecnicamente, scientificamente - 'linguaggio'? Gusto, alimentazione, tecniche culinarie, comportamenti a tavola o produzioni agroalimentari in che termini possono essere accostati alle lingue verbali o ai sistemi dei segni - immagini, gesti, abbigliamento, edifici - che l'uomo usa per comunicare?
Come è possibile associare il nutrimento umano a un qualsivoglia idioma? A queste domande prova a dare delle risposte anche la semiotica, teoria della significazione umana e sociale, di tutto ciò che l'uomo nelle sue diverse manifestazioni adopera per entrare in contatto con gli altri, ma soprattutto per dare un significato a se stesso, alle organizzazioni della collettività, alla storia, alla cultura, alla natura o alle divinità. Noi animali sociali abbiamo specializzato alcune parti del corpo - bocca e orecchio - per articolare suoni che esprimano significati, e ne abbiamo fatto il nostro principale sistema di segni: la lingua.
Parallelamente l’essere umano ha prodotto una moltitudine di differenti dispositivi di comunicazione, utilizzando altre parti del corpo - mani, occhi, postura - o materie che manipolate hanno dato vita a oggetti e tecnologie, abiti e ornamenti, opere d'arte e rituali, dimore e città, paesaggi e territori: tutte cose che, al di là della loro funzione pratica o mitica, sono segni di distinzione.
Il cibo oltre alla sua dimensione nutritiva, sensoriale, Iudica, storica e culturale, ha una sua dimensione specificamente semiotica. Forse ancor di più di altri sistemi di significazione ha un significato, dalle materie prescelte alle tecniche per trasformarle, sino alle modalità di assunzione.
“L'uomo è ciò che mangia” (Ludwig Feuerbach), non soltanto per le sostanze ingerite che vanno a costituire la sua materialità fisica, ma anche perché il cibo scelto lo rappresenta, contribuendo a costruire la sua identità individuale e collettiva.
Semiotica alimentare cibo non solo sostanza ma anche circostanza
Il francese Roland Barthes (esperto di semiotica) pubblicò nel 1961 un saggio sulla “psico-sociologia dell’alimentazione contemporanea” che oggi è consideriamo un classico.
Barthes poneva l’accento su due termini, sostanza e circostanza, osservando come il cibo e le bevande non siano solamente “nutrizione”, ovvero sostanze che si ingeriscono, ma anche “circostanze”, ossia veicoli di comunicazione che trasportano valori sociali, rituali, simbolici, legati all’occasione del loro consumo. Per intenderci: la torta di nozze non è solo un composto di farina burro zucchero eccetera, ma anche un “segno” di unione.
Barthes faceva pure notare come, in certi casi, le due funzioni possano confliggere, cioè, paradossalmente, contrapporsi l’una all’altra, e portava l’esempio del caffè. Dal punto di vista nutrizionale il caffè è una “sostanza” eccitante: serve a mantenersi svegli perché non fa sentire lo stimolo del sonno. Ma dal punto di vista della “circostanza” il caffè si collega a immagini che richiamano il relax, il riposo. Certo, la “pausa-caffè” è uno strumento per rilanciare il lavoro e la produttività, ma, nella percezione che ne abbiamo, è soprattutto un momento di distensione in cui si fanno due chiacchiere con gli amici o i colleghi. Ecco – concludeva Barthes – come la circostanza può vincere sulla sostanza.
Non ho potuto fare a meno di pensare a Barthes vedendo, in questi giorni, sui giornali la pubblicità di una nuova confezione di pop-corn, proposto in buste sigillate da inserire direttamente nel forno a microonde. Lo slogan (il claim, nel linguaggio del marketing) recita: “Il gusto del cinema a casa tua”. Spiazzante, al primo impatto. Ma il senso è stato subito chiaro: al cinema si sgranocchiano pop-corn, dunque se sgranocchiamo pop-corn a casa, davanti alla televisione o magari a un gigantesco home-video che simula, appunto, il “cinema a casa tua”, è come se fossimo al cinema davvero. La cosa interessante è che il pop-corn è pubblicizzato esattamente in questa prospettiva: non tanto per il suo gusto, o per il croc-croc che produce sotto i denti, quanto per la circostanza in cui potrebbe essere consumato – “privatizzando” e, in qualche modo, portando a casa propria la circostanza stessa.
Tutto ciò che ha a che fare col cibo ci insegna molto di ciò che siamo, o pensiamo di essere, o vogliamo essere. Il desiderio (se c’è) di sgranocchiare i pop-corn nel salotto di casa per replicare un gesto tipicamente “sociale” e collettivo come quello di andare al cinema è forse il segno di una cultura che sempre più tende a privilegiare i consumi privati e la dimensione intima, “domestica” della vita. A scapito di quella pubblica.
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