LA PASTA
Storia e origine della pasta secca
Fu nel Medioevo che si definirono alcuni elementi decisivi per la costituzione della "moderna" categoria alimentare della pasta.
Anzitutto la varietà delle forme: larghe, strette, corte, lunghe, forate, ripiene.
Poi il modo di cottura: mentre la lagana etrusco-romana era cotta al forno insieme al suo condimento, nel Medioevo si lanciò la nuova consuetudine, continuata fino ai giorni nostri, di bollire la pasta nell'acqua, nel brodo e talvolta nel latte.
“… A ponente di Termini (PA) vi è un abitato che si chiama Trabìa, incantevole soggiorno con acque perenni e parecchi mulini. Trabìa ha una pianura e vasti poderi, nei quali si fabbricano tanti vermicelli (itriyah) da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono moltissimi carichi per nave…”.
Quella riportata qui sopra è la prima testimonianza scritta relativa alla produzione di pasta essiccata, ed è tratta dal “Libro per chi si diletta di girare il mondo”, scritto dal geografo arabo Al Idrisi per Ruggero II di Sicilia (1154).
Il procedimento adottato per l’essicazione prevedeva che essa fosse esposta al sole per qualche tempo, quindi posta in luoghi chiusi riscaldati per mezzo di bracieri, garantendo così come dice Al Idrisi: “di affrontare anche viaggi verso destinazioni lontane senza deteriorarsi”.
Il vocabolo “trie”, derivato dall’arabo “itriyah" (focaccia tagliata a strisce), sopravvive ancora oggi in molte località del sud Italia, ma dal basso Medioevo la pasta venne definita più genericamente anche con il termine di maccheroni. Quest’ultimo, derivato dal siciliano “maccarruni, proverrebbe da “maccari”, ossia schiacciare, l’azione fatta lavorando la pasta di semola di grano duro. Questo genere di alimento, che a causa dei minuscoli granelli di cui è composta stenta ad amalgamarsi con l’acqua, richiede infatti una lavorazione molto più energica rispetto alla farina di grano tenero.
Grazie agli scambi commerciali via mare, promossi dalle città marinare italiane, l'uso della pasta essiccata raggiunse presto la Liguria. Qui il grano importato dalla Sicilia veniva lavorato sulle coste dove il clima mite e temperato costituiva garanzia di perfetta essiccazione del prodotto.
Proprio un documento del 1244, conservato presso l’archivio di stato di Genova, troviamo citato per la prima volta il termine “pasta”, utilizzato da un medico che prescrive ad un lanaiolo di eliminare dalla dieta la “pasta lissa”.
Ai primi del ‘300 la pasta secca era ormai diffusa in tutta l’Italia del centro-nord, come attesta un documento del 1284, conservato all’Archivio di stato di Pisa, nel quale si dà notizia della vendita di “vermicelli” (loro prima ricetta scritta ad opera di Mastro Martino).
Infine, sono del 1295 le prime notizie della vendita di pasta essiccata nel Regno di Napoli, dove la regina Maria (madre di Re Carlo d’Angiò) ne acquistò un consistente quantitativo per un banchetto.
E' nel Liber de coquina che possiamo conoscere come si facevano le lasagne a quel tempo. Questo ricettario trecentesco consigliava inoltre di mangiare la pasta con un attrezzo di legno appuntito, indicazione che farebbe sospettare la precoce diffusione della forchetta in ambito italiano.
Tutti questi documenti e testimonianze, archiviano perciò la secolare tradizione che vuole la pasta essiccata importata in Italia nel 1295 da Marco Polo , al ritorno dalla Cina.
Storia evoluzione dei condimenti per la pasta
Fino a tutto il ‘600 la pasta era abbinata a condimenti ottenuti con ingredienti prevalentemente dolci, ai quali si aggiungevano burro e formaggio. Ripercorrendone l’evoluzione bisogna però precisare che le ricette sono desunte da trattati di gastronomia riferiti alla cucina delle classi più abbienti.
Mastro Martino propone diverse ricette, dai “Maccheroni romaneschi” ai “Maccheroni chi fir (col ferro). Si tratta di pasta preparate con acqua e farina, cotta a lungo nell’acqua bollente (anche due ore), e infine condita generalmente con burro, cacio e spezie dolci. Da ricordare che le regole imposte dalla chiesa per i giorni di magro imponevano che la pasta non fosse cotta in grassi animali (brodo), ma per esempio nel latte di mandorle zuccherate.
Nel Rinascimento il Messisbugo ripropone i “Maccheroni romaneschi” arricchiti però con uova intere, mollica di pane e zucchero, suggerendo: “Li cuocerai in brodo grasso bogliente, et li imbandirai sopra capponi, anatra o altro, con zucchero e cannella, dentro e sopra”. Sempre il Messisbugo nel suo trattato propone anche una certa varietà di paste ripiene, tra le quali i “Tortelli Magri”, ripieni di spinaci, mandorle, uva passa, fritti e serviti con zucchero.
Numerose sono anche le ricette di pasta dello Scappi, che elenca tra le altre i “Ravioli con spoglia alessati” coperti di cacio, zucchero e cannella, o i “Tortelli con polpa di cappone”.
Alcune tracce di quelli che erano i condimenti più consueti del passato rimangono oggi nella cucina delle varie regioni.
Prima dell’avvento del pomodoro, il più comune condimento della pasta era costituito dal solo formaggio, cui successivamente vennero aggiunti il pepe e l’uovo (Meridione d’Italia); in molte aree si scoprì la bontà del matrimonio fra la pasta, l’aglio e l’olio (agliata); invece in Sicilia si preferirono le sarde, assieme a finocchietto, pinoli, uvetta e zafferrano (sapori d’origine araba); mentre a Genova si sarebbe diffuso l’uso del “pesto”.
Ripercorrendone l’evoluzione bisogna però precisare che le ricette sono desunte da trattati di gastronomia riferiti alla cucina delle classi più abbienti.
Mastro Martino propone diverse ricette, dai “Maccheroni romaneschi” ai “Maccheroni chi fir (col ferro). Si tratta di pasta preparate con acqua e farina, cotta a lungo nell’acqua bollente (anche due ore), e infine condita generalmente con burro, cacio e spezie dolci. Da ricordare che le regole imposte dalla chiesa per i giorni di magro imponevano che la pasta non fosse cotta in grassi animali (brodo), ma per esempio nel latte di mandorle zuccherate.
Nel Rinascimento il Messisbugo ripropone i “Maccheroni romaneschi” arricchiti però con uova intere, mollica di pane e zucchero, suggerendo: “Li cuocerai in brodo grasso bogliente, et li imbandirai sopra capponi, anatra o altro, con zucchero e cannella, dentro e sopra”. Sempre il Messisbugo nel suo trattato propone anche una certa varietà di paste ripiene, tra le quali i “Tortelli Magri”, ripieni di spinaci, mandorle, uva passa, fritti e serviti con zucchero.
Numerose sono anche le ricette di pasta dello Scappi, che elenca tra le altre i “Ravioli con spoglia alessati” coperti di cacio, zucchero e cannella, o i “Tortelli con polpa di cappone”.
Alcune tracce di quelli che erano i condimenti più consueti del passato rimangono oggi nella cucina delle varie regioni.
Prima dell’avvento del pomodoro, il più comune condimento della pasta era costituito dal solo formaggio, cui successivamente vennero aggiunti il pepe e l’uovo (Meridione d’Italia); in molte aree si scoprì la bontà del matrimonio fra la pasta, l’aglio e l’olio (agliata); invece in Sicilia si preferirono le sarde, assieme a finocchietto, pinoli, uvetta e zafferrano (sapori d’origine araba); mentre a Genova si sarebbe diffuso l’uso del “pesto”.
Il padre della pasta con il pomodoro nell’odierna accezione è stato Pellegrino Artusi, ma il primo documento che ne attesterebbe l’uso alimentare è il “Lo scalco alla moderna” di Antonio Latini del 1692-4, dove lungi dall’essere associato alla pasta è utilizzato per insaporire altre verdure. La prima ricetta di salsa di pomodoro è quella contenuta nel “Cuoco galante” di Vincenzo Corrado, consigliata per arricchire carni e pesce, e caratterizzata oltre che dalla presenza di poco olio, da quella di cannella e chiodi di garofano. Il primo cuoco che propose una salsa di pomodoro in abbinamento alla pasta fu Antonio Nebbia autore nel 1779 del “Cuoco maceratese” nel quale tra l’altro è contenuta anche la celebre ricetta dei vincisgrassi. Del tutto simile a quella elaborata dal Nebbia è la ricetta di Ippolito Cavalcanti, che indica di preparare i vermicelli con lo pommodoro.
Semiotica alimentare la pasta e le sue forme
Secondo la filosofia greca, ogni essere risulta dall'unione inscindibile di materia e forma, e la pasta conferma tale verità metafisica. In essa i due elementi non sono separabili. Variando il secondo, varia anche il primo, pure restando invariati la qualità del grano, il sistema di lavorazione e di cottura, il condimento.
Mai come in questo caso ogni questione di forma (e di formato) è anche una questione di sostanza (cioè di sapore). Provate a bere uno spumante prima in un calice di cristallo e poi in una tazza da caffè: non sarà più la stessa cosa.
La pasta scatena nella mente un valzer di metafore, spaghetti, spaghettini, penne, pennoni, rigatoni, bucatoni, tortiglioni.
Alcune vengono dal mondo della zoologia, ed ecco le farfalle, le farfalline, le conchiglie, le conchigliette, le chiocciole, le creste di gallo, le code di rondine, gli occhi d'elefante, i vermicelli, i lumaconi, le linguine, le orecchiette.
Dalla botanica: i fiori di sambuco, la gramigna, i sedani.
Dalla religione: i capelli d'angelo, le maniche di frate, le avemmarie, i cappelli da prete.
Nello scegliere la sua pasta, l'italiano è un poeta, e non lo sa. Quando poi golosamente risucchia il bucatino, diventa musicista, facendolo fischiare come un piffero all'incontrario.
Se per il prosciutto il segreto sta nella stagionatura, per la pasta sta nella essiccazione. Il segreto dei segreti è la porosità della superficie, caratteristica della sfoglia tirata a mano, col matterello, non con la macchinetta. Così si ottengono due vantaggi: nella pentola la pasta assorbe più acqua, rendendo migliore la cottura; e nel piatto più condimento, il quale non scivola come se corresse su vetro, ma indugia sulle minuscole rughe per poi penetrare beneficamente nei microscopici crateri.
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