Luigi Moio: “Lieviti indigeni più tipici dei selezionati? Una favoletta antiscientifica” Luigi Moio a Quintodecimo.
ARTICOLO SCRITTO DA LUCIANO PIGNATARO
Sì, è vero, la scienza non è neutrale. Era il mantra delle nostre generazioni, molto
politicizzate, degli anni ’70. A ben pensarci è il giusto mezzo tra chi crede nella sua
infallibilità a cui delegare una sentenza, una scelta di vita o addirittura un progetto
politico, e chi coltiva i passaparola medioevali neopauperisti antiscientifici e
preilluministi su Facebook. Avevamo voglia di consigliare il capitolo dell’ultimo libro di
Moio, Il respiro del vino, ormai arrivato a 14mila copie e che consigliamo a tutti per la
sua incredibile capacità divulgativa. Ma proprio questa sua innata vocazione spinge
Moio chiederci di usare la formula dell’intervista. Beh, che dire, allora? Buona lettura.
Professor Moio, da dove nasce l’idea che usando lieviti indigeni si riesca a dare più
tipicità al vino?
“Durante qualche degustazione effettivamente ho sentito affermare, con mia grande incredulità, che i lieviti selezionati, poiché spesso provengono da un luogo diverso, in
alcuni casi distante migliaia di chilometri, da quello in cui sono impiegati, conferiscono
ai vini in cui sono utilizzati i profumi della zona di provenienza, determinando un effetto
olfattivo omologante. Al contrario, se la fermentazione si attivasse in modo spontaneo,
non si avrebbe tale omologazione olfattiva, perché sarebbero i lieviti presenti
nell’ambiente pedoclimatico in cui vegeta la vigna a fermentare il mosto; questi lieviti
ritenuti “nativi” del luogo, non altererebbero alcun equilibrio, per cui il vino prodotto
anche grazie a loro dovrebbe essere di altissima qualità. In un certo senso è come se i
cosiddetti “lieviti autoctoni”, che secondo alcuni già “conoscono” quell’uva, sapessero
benissimo cosa fare affinché il vino sia il vero riflesso olfattivo del territorio in cui nasce.
È indubbio che ciò sia molto affascinante e forse per questo una delle domande che
oggi un produttore si sente rivolgere con maggiore frequenza mentre versa il suo vino
nel bicchiere per farlo degustare, è se per il suo vino ha impiegato lieviti selezionati o
autoctoni. Addirittura la regolarità con la quale questa domanda è stata posta negli
ultimi anni ai produttori di vino ha paradossalmente creato la seguente situazione, della
quale sono stato testimone, con mio grande sconcerto, nel corso di varie degustazioni:
alcuni produttori, prima ancora di versare il vino nel bicchiere per farlo assaggiare,
dichiarano che il loro vino è fatto rigorosamente con lieviti autoctoni, come se ciò
facesse bene alla salute!
Su quest’argomento regna una confusione totale. È probabile che chi sia convinto che la
produzione di un vino di qualità – e a questo punto bisogna aggiungere che non faccia
male alla salute – possa avvenire solo mediante una fermentazione spontanea non
conosca bene né l’origine dei lieviti né come questi stessi agiscono durante la
fermentazione alcolica. Pertanto, prima di dare risposte affrettate e superficiali a questo
ormai “angosciante” dilemma e soprattutto alla questione della reale influenza che il
lievito ha sul profumo del vino, sarebbe il caso di capire meglio che cos’è un lievito, da
dove salta fuori e che cosa fa durante la fermentazione alcolica”.
Allora può dirci che cosa sono i lieviti e che funzione hanno nella produzione del vino?
“Il nome scientifico di quello che comunemente chiamiamo lievito è Saccharomyces
cerevisiae. È un fungo unicellulare responsabile del processo biologico noto come fermentazione alcolica, che trasforma gli zuccheri semplici, glucosio e fruttosio, in alcol
e anidride carbonica. Il Saccharomyces è uno tra gli organismi eucarioti più studiati e
conosciuti al mondo, tant’è vero che è il primo eucariote il cui genoma sia stato
sequenziato.
In natura è molto diffuso, ma poiché è un organismo non dotato di mobilità propria, la
sua diffusione avviene a opera di insetti, come osservarono già nel 1925 gli studiosi
Sergent e Rougebief, e del vento, come dimostrato nel 1961 dai ricercatori Later e
Ingram, che isolarono cellule di Saccharomyces nell’aria. Tuttavia l’azione di
disseminazione da parte degli insetti è la più importante, come provato dai
numerosissimi isolamenti di lieviti dalle zampette di vespe, api, mosche, falene,
cocciniglie, punteruoli, cicale, cavallette e, soprattutto, moscerini dell’uva, detti anche
della frutta, dell’aceto o del mosto. Questi ultimi sono quelli maggiormente impegnati
nella diffusione dei lieviti soprattutto tra gli acini d’uva danneggiati. Infatti, questo
simpatico moscerino, il cui nome scientifico è Drosophila melanogaster, vive sulla frutta
molto matura e deteriorata, in cui ci sono processi fermentativi in atto. È attirato
dall’odore emanato dalla fermentazione e imbrattandosi di lieviti ne diventa il principale
agente di diffusione. Pertanto, in assenza di una fonte di lieviti, ossia di un processo
fermentativo in atto, e senza l’aiuto d’insetti come la Drosophila melanogaster, che ne
diffondono velocemente le cellule, è molto difficile trovare sugli acini d’uva i
Saccharomyces”.
Ma allora il luogo comune che i lieviti siano localizzati sugli acini d’uva e precisamente
sulla cera che ne riveste la buccia non è corrispondente alla realtà?
“Tutti gli studiosi che hanno svolto ricerche di ecologia microbica sulla superficie delle
bacche concordano che è raro trovare Saccharomyces sulla buccia degli acini d’uva,
soprattutto se questi sono perfettamente integri e sani. Nel 1982 un microbiologo
dell’Università di Perugia, il professor Rosini, dimostrò che è possibile trovare poche
cellule di Saccharomyces solo in prossimità del pedicello degli acini molto maturi, in
particolare nel punto d’inserzione tra il pedicello e la bacca dal quale possono
fuoriuscire goccioline di succo molto dolce, che renderebbero possibile una rapida
moltiplicazione delle cellule di lievito. Altri microbiologi hanno evidenziato che circa un acino su mille può presentare qualche cellula di Saccharomyces e che ovviamente le
cellule possono aumentare se i grappoli sono danneggiati, perché in questo caso dagli
acini fuoriescono goccioline di mosto zuccherino che ne permettono la crescita e la
moltiplicazione. In definitiva, se tutti i grappoli d’uva di una vigna fossero perfettamente
sani e integri, di lieviti ce ne sarebbero ben pochi.
Infatti, nelle annate molto buone, in cui le uve sono perfettamente sane e mature, dopo
l’ammostatura dei grappoli, la fermentazione spontanea si attiva con difficoltà e, una
volta avviatasi, rallenta moltissimo nella fase finale, lasciando il vino ancora
leggermente dolce. In queste annate moltissimi amici che producono il vino per
consumo familiare mi avvicinano, preoccupati, chiedendomi perché la fermentazione in
quell’anno sia così pigra e tenda ad arrestarsi prima del tempo. Quando rispondo che
ciò è probabilmente dovuto alle uve sane e molto mature, mi guardano sempre stupiti e
disorientati. Divertito, cerco allora di spiegare che nelle annate non proprio perfette, in
cui per esempio sopraggiungono piogge intense e prolungate oppure delle grandinate,
alcuni acini possono rompersi, specie quelli delle varietà con le bucce più sottili,
aprendo purtroppo le porte agli agenti dei marciumi acidi: lieviti, batteri e muffe. In
questi casi la Drosophila, grazie alla sua straordinaria sensibilità agli odori, riconosce gli
acini danneggiati e vi deposita le uova, che si sviluppano rapidamente dando origine
agli insetti adulti in 10-14 giorni circa. Questi ultimi, ripetendo freneticamente il ciclo,
diffondono i lieviti e i batteri responsabili del marciume soprattutto tra gli acini
danneggiati. La fermentazione spontanea in queste annate parte rapidamente e si
completa regolarmente, tuttavia è probabile che tra i vari lieviti in fermentazione ve ne
siano alcuni che producono odori anomali, che possono alterare il profumo del vino e
mascherare la percezione di profumi legati all’uva e al luogo d’origine.
Comunque, indipendentemente dalla presenza rilevante o meno di Saccharomyces
sull’uva, questo organismo è sempre molto abbondante in cantina perché con l’avvio
delle operazioni di ammostatura, le poche cellule iniziali si moltiplicano velocemente,
diffondendosi un po’ dappertutto e accumulandosi in particolare sulle attrezzature di
cantina”.
Qual è la differenza tra lieviti autoctoni e lieviti indigeni? “L’elevata presenza di lieviti in cantina ha portato a ipotizzare che la specie
Saccharomyces cerevisiae sia associata all’attività dell’uomo. Questa ipotesi ha
suggerito che i ceppi di Saccharomyces cerevisiae possano adattarsi a determinati
microambienti, e siano i più idonei per produrre vini di qualità.
Questa ipotesi molto affascinante è stata spinta fino al punto che i lieviti di un territorio
sono definiti “autoctoni” e si sostiene, come abbiamo già detto prima, che poiché sono
selezionati in quel particolare ambiente, siano i migliori per produrre vini con peculiari
caratteri di tipicità del luogo. Alcuni autori sostengono che ceppi simili possono essere
riscontrati nella cantina in anni successivi, rivelandosi fondamentali per la buona
riuscita di una fermentazione spontanea. Altri, invece, dimostrano che i dati a sostegno
di queste ipotesi sono ancora molto limitati e che soprattutto non tengono conto di
molti altri fattori che influenzano le dinamiche di popolazione durante la fermentazione
spontanea, come per esempio il grado di maturazione dell’uva, lo stato sanitario della
stessa, le tecniche di ammostatura, nonché le operazioni di sanitizzazione degli attrezzi
di cantina.
In ogni caso l’aspetto importante da tener presente è che le poche cellule di
Saccharomyces cerevisiae, eventualmente presenti in una vigna, non sanno per nulla
che un uomo un giorno raccoglierà quell’uva per farne vino. Il loro principale obiettivo
non è trasformare l’uva nel miglior vino possibile, ma semplicemente quello di cercare
una fonte zuccherina per crescere e riprodursi. Pertanto sembra impossibile che ceppi
di lieviti che dovessero trovarsi sui grappoli di una varietà di uva, ipotizziamo di
Sangiovese, di cui non sanno assolutamente nulla, siano in grado di farne il miglior vino
possibile.
La scarsità di Saccharomyces cerevisiae sulle uve e la sua abbondanza nei mosti
dimostrano, invece, che la vera pressione selettiva è esercitata proprio dal mosto in
fermentazione e non dalla varietà d’uva e nemmeno dall’habitat naturale, per cui non
c’è alcun motivo ragionevole a sostegno dell’idea che su un grappolo d’uva di qualsiasi
varietà ci sia il ceppo di lievito in grado di farne il miglior vino o meglio ancora il vino
maggiormente espressivo del carattere della varietà d’uva e dell’ambiente
pedoclimatico in cui vegeta la vigna.
Il termine “autoctono”, poi, come ben spiega il professor Paolo Giudici, microbiologo
dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è generalmente utilizzato in microbiologia
medica per indicare microrganismi presenti in nicchie ristrette e ben definite, dove la
pressione selettiva esercitata è costante nel tempo. Il termine è stato inizialmente
introdotto per descrivere i microrganismi del tratto gastrointestinale, poi è stato preso
in prestito dalla microbiologia alimentare, che lo attribuisce solo al microrganismo
sempre presente nell’alimento. Nel vino, il concetto di autoctono è stato esteso alla
specificità della cantina, ipotizzando la presenza di lieviti caratteristici di ogni singola
cantina. Se così fosse, in ogni cantina, per almeno due o più anni successivi, si
dovrebbero isolare sempre gli stessi ceppi, e ciò sinora non è stato mai dimostrato.
Inoltre, la continua contaminazione fra vigna e cantina, probabilmente mediata da
insetti e uccelli, e la sanitizzazione degli ambienti e degli attrezzi di cantina, escludono
di poter considerare la cantina come una nicchia ristretta. Diversi elementi, dunque,
depongono a sfavore dell’utilizzo del termine “autoctono” per indicare i lieviti presenti
in un vino dove è avvenuta una fermentazione spontanea; appare, invece, molto più
appropriato il termine “indigeno”, con il quale s’intendono i lieviti presenti in un
determinato momento, senza alcuna pretesa di continuità temporale”.
Dunque abbiamo capito che i lieviti spontaneamente presenti in un mosto è più corretto
definirli indigeni, ma sono tutti uguali o sono tra loro differenti?
“I lieviti che si sviluppano nel mosto appena ottenuto dalla pigiatura delle uve sono
molti, di diverse specie e hanno differenti caratteristiche e proprietà. Non tutti questi
lieviti sopravvivono in un mosto in fermentazione e soprattutto non tutti operano
trasformazioni favorevoli alla qualità del vino, tuttavia tutti danno il loro contributo,
piccolo o grande, buono o cattivo, al risultato finale.
I microbiologi, in tantissimi anni di ricerche per conoscere i microrganismi e classificarli,
li hanno divisi in famiglie, in gruppi, in generi e specie, secondo criteri che di volta in
volta, in funzione degli avanzamenti delle conoscenze scientifiche, hanno subìto
variazioni. Non vorrei qui seguire la classificazione ufficiale, ma per semplicità un
sistema di uso comune in enologia, molto più facile e soprattutto molto più “pratico” e
comprensibile, e comunque non troppo lontano dalle classificazioni ufficiali. Secondo questo semplice criterio è possibile distinguere i lieviti essenzialmente in “apiculati”,
“ossidativi”, “contaminanti” e “fermentativi”.
I lieviti apiculati, così chiamati per la loro forma caratteristica di limone, sono
caratterizzati da un’elevata e rapida crescita e producono quantità piuttosto elevate di
acido acetico. Fortunatamente sono poco resistenti all’alcol etilico, per cui diminuiscono
drasticamente nel numero e nella loro attività quando il mosto in fermentazione supera
i quattro gradi di alcol.
I lieviti ossidativi si sviluppano in presenza di ossigeno e possono essere presenti nei
mosti, dove però di solito non trovano il tempo di svilupparsi, e nei vini conservati in
maniera inadeguata, a contatto con l’aria. Questi lieviti producono acido acetico e
acetaldeide, in seguito all’ossidazione dell’alcol etilico.
I lieviti contaminanti sono un gruppo piuttosto numeroso di lieviti che, favoriti dalle
condizioni igieniche precarie delle cantine, riescono a svilupparsi nel vino e a produrre
composti di solito non graditi. Per esempio, un lievito contaminante particolarmente
pericoloso, il cui nome è abbastanza noto anche agli appassionati di vino, è il
Brettanomyces Bruxellensis,
che produce la molecola odorosa responsabile di un intenso e sgradevole odore
“equino”, più comunemente noto come “sudore di cavallo” o anche come “carattere
brett” riferendosi, in questo caso, agli agenti che producono la molecola odorosa.
Infine, abbiamo i lieviti “fermentativi”, costituiti dal Saccharomyces Cerevisiae, capaci
di far fermentare il mosto che si trasforma correttamente in vino”.
Potrebbe farci capire in modo semplice che cosa accade in una fermentazione
spontanea?
“La situazione somiglia a una di quelle strane gare in cui i concorrenti devono mangiare
a dismisura. Qui i concorrenti sono rappresentati dai lieviti, che devono “mangiare” la
maggiore quantità possibile dello zucchero disponibile nel mosto; tuttavia, c’è una
particolarità da considerare, ovvero che a ostacolare i lieviti nella loro impresa ci sono
l’alcol etilico e l’anidride carbonica, ossia i principali composti che i lieviti stessi
producono dopo l’assunzione dello zucchero. In questa “gara” vincono i lieviti che, resistendo di più all’alcol etilico che si accumula man mano che la “competizione” va
avanti, riescono a “mangiare” quanto più zucchero è possibile.
I lieviti che partono per primi sono gli apiculati, poiché all’inizio della gara sono già
molto numerosi: “ingurgitano” subito, velocemente, molto più zucchero degli altri, ma
appena comincia ad accumularsi alcol etilico rallentano fino a fermarsi del tutto. Anche i
lieviti che abbiamo chiamato “ossidativi” partono speditamente, grazie alla disponibilità
di ossigeno durante operazioni di ammostatura, ma appena l’ossigeno inizia a
scarseggiare cominciano a soffrire anch’essi, rallentando fino a fermarsi. I lieviti
fermentativi, invece, che all’inizio della gara sono pochissimi, dopo un avvio pigro e
stentato si moltiplicano rapidamente, “divorando” velocemente la maggior parte dello
zucchero presente nel mosto e resistendo senza alcun problema all’alcol etilico da loro
stessi prodotto, per cui riescono a battere tutti gli altri concorrenti vincendo così la
“gara fermentativa”.
Un comportamento che distingue i ceppi veloci e affaticati da quelli lenti e regolari che
arrivano fino alla fine, è che i primi, oltre all’alcol etilico e all’anidride carbonica,
producono anche rilevanti quantità di “scarti” indesiderati, il principale dei quali è
l’acido acetico. Infine, alcuni ceppi, sia tra quelli lenti sia tra quelli rapidi, durante la
gara possono generare quantità sensorialmente percepibili di odori repulsivi d’idrogeno
solforato o di anidride solforosa.
In conclusione, questa gara fermentativa è molto dura e selettiva: alcuni concorrenti
capitolano subito, altri riescono a “divorare” senza alcun problema fino all’ultima
molecola di zucchero, altri ancora possono generare odori davvero ripugnanti.
Questa fantasiosa rappresentazione dell’attività dei lieviti descrive, anche se con una
certa approssimazione, ciò che accade in un mosto lasciato libero di fermentare
spontaneamente. In pratica i diversi ceppi di lieviti si avvicendano in una sorta di
staffetta, in cui alcuni lavorano di più all’inizio per poi fermarsi quasi subito, altri
aumentano la loro azione nella fase centrale e proseguono in modo regolare fino al
momento in cui ognuno di loro avrà dato un contributo alle caratteristiche sensoriali del
vino finale. A questo punto bisognerebbe capire quale sia questo contributo e se sia
davvero migliore di quello che potrebbe dare un solo ceppo capace di superare tutti gli ostacoli in modo brillante, senza generare molti “scarti”, e soprattutto senza produrre
“scorie” maleodoranti. È questo oggi il grande dilemma di chi fa il vino: lasciare il mosto
libero di fermentare spontaneamente oppure aggiungere un lievito che da solo degradi
tutto lo zucchero del mosto senza molti problemi di “scarti” indesiderati, di stanchezza,
di scorie maleodoranti e di altri intoppi inattesi?
Vediamo, ora, di analizzare alcuni elementi che possono aiutarci a trarre una
conclusione in merito a questo interrogativo. Un primo aspetto preoccupante della
spontaneità del processo fermentativo riguarda la produzione di acidità volatile,
essenzialmente di acido acetico: i lieviti apiculati sono comunemente conosciuti come
produttori di elevate quantità di acido acetico, per cui il loro naturale sviluppo facilita la
produzione di vini difettosi. Inoltre, la selezione naturale che avviene durante lo
svolgimento della fermentazione non esclude che il ceppo “fermentativo” che prenderà
il sopravvento sia anch’esso un produttore di elevate quantità di acido acetico. Una
seconda preoccupazione riguarda la produzione d’idrogeno solforato, che è una
caratteristica dei ceppi di lievito. Un altro problema ancora è l’irregolarità della
fermentazione, con avvii molto stentati e chiusure lentissime, nonché molto rischiose
perché possono dare la possibilità a microrganismi ossidativi di ossidare il vino già in via
di realizzazione, compromettendone completamente la freschezza olfattiva. L’entità di
questo fenomeno indesiderato dipende molto dalla casualità della dominanza dei vari
ceppi durante la fermentazione, che naturalmente è molto instabile. Infine, l’ultimo
punto molto critico è il profumo del vino, che ovviamente deve essere privo di odori
sgradevoli, se si desidera fare esprimere nella sua purezza olfattiva tutto il potenziale
del vitigno.
In conclusione, con una fermentazione spontanea non si ha alcuna certezza che i lieviti
indigeni, in grado di prendere possesso della fermentazione alcolica, diano un vino di
qualità. Pertanto scegliere di lasciare tutto al caso potrebbe condurre ad un risultato
accettabile oppure ad un cattivo risultato, principalmente in vinificazione in bianco,
ossia ina assenza di macerazione, per cui in particolare in quest’ultimo caso sarebbe
davvero un peccato, soprattutto dopo aver lavorato duramente in vigna un intero anno
per ottenere un’uva di elevata qualità”. Che cosa è un lievito selezionato?
“Un lievito selezionato non è altro che un lievito naturale identico in tutto – stessi
metabolismi, stessi cromosomi, stessi geni – al cosiddetto lievito indigeno, con la
differenza che è stato isolato dal suo ambiente naturale nel quale era indigeno ed è
stato caratterizzato nelle sue varie attività. Proprio perché “scelto”, non fa cose
dannose per l’uomo e per la qualità del vino.
Il lavoro di selezione dei lieviti consiste nell’isolare i diversi ceppi presenti naturalmente
nel mosto, o in alcuni rari casi sull’uva, e nel caratterizzarli poi individualmente. Ogni
ceppo isolato viene sottoposto a una serie di esami che hanno lo scopo di rilevare, per
esempio, quale tra i ceppi sia un po’ lento, ma nel contempo molto regolare, e sopporti
bene l’alcol; quale sia più veloce ma si stanchi subito; quale resista meglio alle
temperature elevate; quale alle temperature basse; quale fronteggi meglio la presenza
dell’alcol; quale produca bassissime quantità di idrogeno solforato; quale produca
limitatissime quantità di acido acetico, insomma tante utili funzioni per la corretta
conduzione di una fermentazione alcolica. Poi ci saranno ceppi di lieviti che rilasciano
odori sgradevoli, come nel caso di quantità elevate e nauseabonde d’idrogeno solforato,
per cui verranno scartati, altri che possono produrre sostanze nocive per l’uomo e che
ovviamente saranno scartati e, infine, altri ancora che genereranno elevate quantità di
acido acetico, per cui saranno ritenuti dannosi ai fini della qualità del vino e quindi
scartati.
Una volta isolati e caratterizzati, i ceppi migliori e soprattutto più utili sono moltiplicati,
senza che ciò modifichi né le loro caratteristiche né la loro origine. Una volta moltiplicati
sono essiccati, diventando così quelli che comunemente si chiamano lieviti secchi attivi.
A questo punto s’impone una domanda: per produrre un buon vino è preferibile
impiegare un lievito selezionato? La risposta non è molto complicata: in una
fermentazione spontanea nessuno ci garantisce che i ceppi che porteranno avanti la
fermentazione abbiano tutti caratteristiche positive e diano tutti un contributo utile alla
qualità del vino che si desidera produrre. Inoltre, non vi è alcuna certezza che di anno in
anno si sviluppino gli stessi ceppi con gli stessi modi, assicurando un minimo di
costanza qualitativa alla produzione, in cui l’unica variabile sia la composizione chimica dell’uva, che ovviamente risente delle caratteristiche climatiche dell’annata. In
definitiva, è molto più giudizioso conoscere bene il lievito che dovrà occuparsi della
fermentazione alcolica e non consentire che questo fenomeno, che è il più importante
nella produzione del vino, avvenga per caso e sia lasciato alla mercé di eventi non
conosciuti e non controllabili”.
Il lievito incide sugli aromi del vino e, soprattutto, comporta rischi di omologazione?
“La convinzione che il lievito condizioni in modo decisivo il profumo del vino ha fatto sì
che si sia diffusa l’idea che alcuni di essi, in particolare i lieviti selezionati, conferiscano
all’uva aromi “estranei” e talmente intensi da “mascherare” i caratteri olfattivi identitari
dell’uva e del luogo d’origine. Secondo alcuni questi lieviti provocherebbero un’azione
omologante sul profumo dei vini, facendoli somigliare tutti. Purtroppo queste
affermazioni sono molto superficiali e approssimative. Basti semplicemente pensare che
uno stesso ceppo di lievito, se opera nelle stesse condizioni in mosti diversi, conduce a
risultati differenti. Pertanto l’omologazione olfattiva che dovrebbe determinare un
ceppo di lievito di cui si conosce bene il funzionamento è molto improbabile. A
influenzare il risultato finale, invece, è soprattutto la composizione del mosto, che varia
in dipendenza dell’annata, del microclima, della composizione del terreno e di altri mille
fattori, fra cui il modo di ottenimento del mosto e tutte le condizioni di fermentazione.
Per capire bene il ruolo del lievito sul profumo del vino è molto utile la distinzione dei
vitigni in neutri e varietali, ovvero orchestrali e solisti, come li ho definiti nel libro “Il
Respiro del Vino”.
I vini da varietà di uva neutre, sono caratterizzati da un profumo che è essenzialmente
il risultato dell’equilibrio odoroso che si stabilisce tra gli esteri e gli alcoli superiori. In
questo caso la principale azione del lievito è di intervenire su questo equilibrio. In
funzione, dunque, dei ceppi che s’impiegano e di altre variabili a volte molto più
importanti del lievito stesso, come la temperatura, la torbidità del mosto, le risorse
azotate e la disponibilità di ossigeno, l’equilibrio può spostarsi a favore degli esteri, che
conferiranno al vino odori fruttati con evidenti sentori di banana, mela, ananas e
melone, oppure degli alcoli superiori, con la conseguenza che il vino sarà molto più
povero dal punto di vista olfattivo. Questa situazione si verifica con maggiore frequenza
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in una vinificazione per la produzione di vini bianchi che, com’è noto, generalmente non
prevede la presenza di parti solide dell’acino nel mosto, ossia la fase di macerazione. In
questo caso il peso del lievito sul profumo del vino, poiché influenza essenzialmente gli
equilibri esteri/alcoli superiori, è valutabile tra il 20% e il 30%. È molto meno
importante, invece, nei vini ottenuti da vinificazioni alla presenza delle parti solide
dell’acino, ossia con macerazione, come la maggioranza dei vini rossi e qualche vino
bianco.
Nei vini che possiedono aromi varietali, ossia quelli ottenuti dai vitigni che definisco
solisti, l’azione del lievito, oltre a quella appena descritta di governo dell’equilibrio tra
l’intensità odorosa degli esteri e quella degli alcoli superiori, è anche quella di far
esprimere il profumo varietale. In questi vitigni, però, è necessario fare un’altra
distinzione tra quelli in cui il carattere varietale è già espresso nell’uva, e di
conseguenza anche nel mosto, e quelli in cui questo carattere non è per nulla
percepibile nell’uva né tantomeno nel mosto. Nel primo caso l’azione del lievito può
essere di ulteriore amplificazione dell’aroma varietale già in parte espresso e
ovviamente di organizzazione dell’intera intelaiatura alcolica di origine fermentativa: è il
caso dei vini ottenuti da uve Moscato, Gewürztraminer, Malvasie aromatiche, ricche in
terpeni, e anche da uve Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, molto ricche in
metossipirazine. Nel secondo caso, invece, dei vitigni dotati di caratteri varietali silenti,
il lievito ha un ruolo più importante, perché senza di esso il profumo varietale dell’uva
rimarrebbe inespresso, e questo è il caso soprattutto della varietà Sauvignon Blanc.
È ovvio che questo microrganismo è essenziale per l’ottenimento del vino ed è molto
importante per quanto riguarda la definizione del suo profumo, tuttavia è necessario
tener conto della grande differenza tra varietà di uva con forte identità varietale e
neutre. È proprio in queste ultime, che poi sono la maggioranza di quelle presenti al
mondo, affinché il loro vino sia davvero pura e inconfondibile espressione della varietà
d’uva ed eventualmente di un territorio, il lievito gioca un ruolo fondamentale, sia nel
far sviluppare in modo equilibrato il loro profumo, sia, soprattutto, nell’evitare la
produzione di generici odori anomali, che possano mascherare la purezza olfattiva del
vino e, purtroppo, vanificare tutto il duro lavoro fatto in un anno per arrivare a produrre
grappoli d’uva bellissimi”.
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